Così rispondeva il nostro “militare serbo disertore” che avevamo trovato davanti agli uffici di via Adige una calda mattina di inizio settembre, inviatoci da un compagno dell’ Arci di Udine, che forse per “sbolognarlo” o forse informato dell’impegno che l’Arci stava profondendo nelle azioni contro la guerra in Jugoslavia e per l’accoglienza dei profughi, lo catapultò nelle “braccia accoglienti” di Flavio Mongelli, allora Presidente di Arci Milano e della Segreteria Nazionale.
Dopo due mesi Nejad (Nele) non sapeva ancora parlare italiano e, naturalmente, decidemmo di metterlo a rispondere al centralino, centralino molto caldo e particolare, che avevamo aperto con l’aiuto del sindacato e di altre associazioni: Telefonski Most, un “ponte telefonico tra le persone”.
ll 5 ottobre 1992 era partita l’iniziativa nella sede dell’ Arci a Milano. Un Mixer e due telefoni, un ponte telefonico italiano tra abitanti di Croazia e Serbia che non potevano più comunicare a causa della guerra. Lo avevamo fatto con lo spirito di slancio solidale che, allora come oggi, contraddistingue il mondo associativo (e forse anche con un po’ di incoscienza… meno male).
Con l’aiuto dei volontari e senza pensare alle conseguenze, nel giro di poche settimane il nostro centralino era letteralmente “impazzito”. Avevamo allora la selezione passante per dieci linee, ma nessuno riusciva più a ricevere e neanche a chiamare.
Così il “lavoro” prezioso di Nele diventò determinante a riprendere anche le nostre attività abituali. Passava intere giornate a ripetere di chiamare sul nuovo numero …appunto “pet pet jedan osam dva pet”, oggi con l’avvento della telefonia mobile è uno dei pochissimi numeri che ricordo a memoria.
Ma torniamo a Telefonski Most: la censura e il blocco di ogni forma di comunicazione e dialogo erano alcuni degli strumenti delle politiche nazionaliste. Così avvenne anche nelle zone di confine tra Croazia e Serbia nel 1991. Un’intera fascia di villaggi, abituati a scambi oltre confine tra parenti, amici e conoscenti, vennero isolati: le false notizie dei reciproci massacri date per radio e tv – non potendo essere verificate anche attraverso le telefonate ad amici e parenti sul campo – ebbero molto più successo nello scatenare una guerra fratricida.
In Italia, Arci e l’Associazione Est/Ovest, con pochi mezzi economici e tanto volontariato – quello dei cittadini bosniaci residenti a Milano e alcuni volontari italiani bilingue – idearono e costruirono un ponte telefonico. E come ricordò Alexander Langer al Verona Forum nel 1995 “…allora non ci si poteva neanche sognare di riunirsi a Zagabria, Belgrado, Ljubljana, Skopje o Sarajevo, e persino per parlarsi bisognava ricorrere ai ponti telefonici via Bruxelles o Milano”.
“Telefonski Most” permetteva la comunicazione umana e familiare.
Di seguito il ricordo di una volontaria bilingue, la prima telefonata: “La signora chiama dalla Croazia, mi dice di voler parlare con il figlio che non sente da mesi e che abita oltre confine. Su un altro telefono faccio il numero serbo, lui risponde sorpreso. Li metto in collegamento. Si raccontano, piangono, chiedono conferma delle notizie sentite per radio e tv”.
“Furono migliaia le chiamate, voci di persone che non pronunciarono mai parole di odio e vendetta, non gettarono sul parente o sull’amico lontano la responsabilità della tragedia in atto”, come ricorda spesso Lusenti, allora responsabile internazionale di Arci Milano.
Telefonski Most durò circa cinque anni, migliaia furono le telefonate, decine i volontari, segnò profondamente i militanti di Arci che diedero vita ad altre campagne di solidarietà, si recarono spesso nei paesi colpiti dalla guerra, “ospitarono la guerra in casa”, raccolsero centinaia di milioni di lire per gli “affidi a distanza nella campagna “adotta la pace”…ma questa è un’altra storia.
Ps. Cosa è rimasto di quella meravigliosa esperienza? Sicuramente una bolletta da 460.000 milioni di lire (come dire oggi circa 350.000 euro), che l’Arci, con il contributo di tutti e tutte, e con il prezioso lavoro di relazioni di Tom Benetollo e di Flavio Mongelli riuscì a risolvere e pagare, ma soprattutto un lavoro internazionale che da allora ad oggi non si è mai interrotto, neanche durante la pandemia, come potete intuire da queste immagini della Biblioteca di Sarajevo e dal ponte di Mostar dove un tricolore di luci simboleggiava la solidarietà e la vicinanza degli amici ex-Jugoslavi all’Italia colpita dal Covid.
Adottalapace è stato un progetto di solidarietà e di Cooperazione internazionale partito, ideato e realizzato (nella sua fase iniziale) da Arci Emilia Romagna e Arci Bologna durante la guerra in Ex Jugoslavia, che si è trasformato nel tempo in un progetto nazionale.
Vari territoriali si sono attivati coinvolgendo nel percorso diversi attori e “compagni di strada”, in Emilia parti in collaborazione con Arci Ragazzi e CGIL. Naturalmente il progetto aveva coinvolto la struttura del Nazionale che allora si chiamava Arcisolidarietà.
Nel giro di pochissimo tempo anche Arci Toscana e Arci Lombardia avviarono la Campagna che, ad esempio, a Milano e anche in altri territori coinvolsero le Acli e i membri della carovana pacifista Mir Sada. Ognuno adattò alla propria specificità le iniziative e fece partire i gemellaggi con i territori al di là dell’Adriatico. Nell’arco di un anno anche nelle altre regioni del centro e del sud Italia partirono progetti locali di aiuto alle popolazioni in conflitto.
L’obiettivo principale del progetto era di mettere in contatto famiglie italiane con famiglie della ex-Jugoslavia, in modo da attivare affidi a distanza da parte di diversi soggetti (famiglie, singoli o gruppi italiani) a favore di famiglie, bambini, anziani etc. sia nei campi profughi che nelle zone circostanti le aree di crisi.
Ad ogni famiglia affidata venivano recapitate mensilmente delle quote (oggi ammonterebbero a circa 60/80 euro) per un’intera annualità. Una cifra equiparabile a uno stipendio o una pensione minima locale, che all’epoca era di circa 60 euro al mese: un’aiuto indispensabile a coprire i bisogni primari delle famiglie profughe e devastate dall’assurdità della guerra fratricida.
Il valore aggiunto di questa iniziativa stava nella possibilità di sviluppi futuri che un intervento siffatto poteva facilitare, data la vicinanza a noi degli scenari di crisi. Tra affidati e affidatari si creava (attraverso scambi di foto e di lettere) un rapporto dignitoso e “alla pari” che diede vita ad una amicizia che fu duratura.
Metodologia
Data l’estrema variabilità degli scenari in cui ci si trovava ad operare, per rendere efficace e continuativo nel tempo la realizzazione del progetto, un solo modo garantiva il controllo dell’iniziativa: curare di persona la selezione dei beneficiari e la distribuzione degli aiuti consegnandola di persona ai destinatari; cosa che i responsabili del progetto fecero mensilmente recandosi nelle zone di intervento e che fu la grande forza di Adottalapace.
La totale e verificabile trasparenza nelle donazioni (le associazioni partner della ex Jugoslavia si facevano garanti della corretta distribuzione dei fondi) motivava sempre più i volontari e gli attivisti che, una volta ritornati dai viaggi e dalle missioni, diventavano divulgatori efficaci dell’iniziativa.
Zone di intervento
Il progetto pian piano si dispiegò in Serbia (a Novi Sad, Belgrado, Pancevo, Subotica), in Croazia (a Virovitica, Dakovo, Gasinci, Gradac e Rijeka), in Dalmazia centro meridionale (Varazdin), e in Bosnia Erzegovina (a Posusje, Siroki, Brieg, Mostar, Tuzla). Con quasi tutti questi Comuni si stabilirono gemellaggi e in molti si “aprirono” le “ambasciate locali per la pace”.
Valori
I valori alla base del progetto erano la promozione della pace, che veniva sostenuta sempre, anche quando ci si recava direttamente nelle zone di guerra in cui si realizzavano gli affidi; e, altro principio fondamentale, l’interetnicità dell’azione umanitaria. Questo era il motivo per cui Adottalapace operava in favore di cittadini serbi, montenegrini, croati, musulmani in uguale misura e senza alcuna distinzione, purché vittime loro malgrado di una guerra non voluta.
Oltre all’obiettivo principale, che era quello di attivare quanti più affidi possibili e consolidare i rapporti tra le famiglie per i rinnovi annuali, le azioni si dispiegarono su:
Informazione e sensibilizzazione
La guerra nella ex Jugoslavia era una guerra dimenticata. Migliorare e far circolare l’informazione, ribadire che anche tra la popolazione dell’ex Jugoslavia cresceva la voglia e l’impegno per la pace e, infine, far conoscere e sostenere tutti i progetti e i gruppi che, sia nella ex Jugoslavia che altrove, erano impegnati per una risoluzione non violenta dei conflitti costituiva un utilissimo contributo per superare l’indifferenza.
Raccolta fondi e di materiali
Tali venivano inviati nelle diverse zone interessate al progetto: la situazione di guerra e la gravissima situazione economica rendevano assai difficile, tra l’altro, il mantenimento delle normali attività scolastiche, pertanto lo sforzo si indirizzava alla. ricerca e all’invio del materiale destinato ad attività didattiche (carte, penne, pennarelli, libri…) e di comunicazione (materiale per stampa, fax , toner, matrici…).
Scambi culturali
Una delle conseguenze della guerra era rappresentata dall’isolamento culturale in cui si trovavano le zone di conflitto: realizzare scambi culturali con diverse modalità espressive (concerti, teatro, cinema, incontri…) oltre a rompere questo isolamento, contribuiva a far conoscere la cultura balcanica agli attivisti e ai volontari del progetto e viceversa, e a rafforzare la fiducia nella cultura della tolleranza e della differenza.
Il progetto andò ben oltre il periodo del conflitto, le cui conseguenze non sono ancora oggi sanate. Molti comitati continuarono fino al dissolvimento totale della ex-Jugoslavia alla fine degli anni 90.
A distanza di più di 30 anni, molti di quei rapporti costruiti con le organizzazioni partner sono ancora in essere. Progetti che hanno portato alla realizzazione di tante altre attività in campo sociale, culturale e politico, tra i quali il sostegno alla nascita del Forum del Terzo settore Yugoslavo.
Tom Benetollo, allora presidente nazionale dell’Arci, partecipò, insieme ad altri compagni e compagne, ad una delegazione italiana che andò nell’estate del 1999, appena finita la guerra della Nato contro la Repubblica Federale Yugoslava di Milosevic, per sostenere la nascita del 1° Forum del Terzo settore Yugoslavo a Subotica, continuando il lavoro politico dell’associazione tutta, che era iniziato tanti anni prima con l’Assemblea dei cittadini (non allineati) di Helsinki.
Non è stato mai possibile quantificare il numero totale di affidi che le centinaia di Associazioni e le migliaia di volontari italiani ed internazionali attivarono in quel decennio, dai pochi documenti cartacei si presume che furono decine di migliaia: solo a titolo di esempio, il solo Comitato di Milano, nel periodo più caldo del conflitto, aveva circa 860 affidi nelle zone di Rijeka in Croazia (prevalentemente profughi provenienti dalla Slavonia Orientale e nella zona di Subotica nella ex regione autonoma di Vojvodina in Serbia (serbi delle krajne e delle zone di confine con Croazia e Bosnia).
I volontari erano prevalentemente giovani tra i venti e i trent’anni che andavano avanti e indietro con furgoni, macchine e treni (gli aerei non c’erano o costavano una fortuna) quasi tutti i mesi, “imbottiti” di soldi in contanti, nascosti ogni dove, prevalentemente marchi tedeschi di piccolo taglio, a causa di un inflazione galoppante determinata dalla guerra, che raddoppiava i costi dei beni di prima necessità da un giorno con l’altro.
Coraggiosi, incoscienti, incuranti dei pericoli …non so ma quando ricordo quegli anni lo faccio con gli occhi della nostalgia e del disincanto, la nostalgia per i tanti compagni e compagne che non ci sono più e la perdita del disincanto dell’Europa della pace e dei diritti , che ancora oggi dopo trent’anni non è riuscita a impedire ciò che accade in Ucraina e in Palestina.
Adottalapace ha favorito la nascita di centinaia di rapporti con innumerevoli associazioni dei Balcani, che in alcuni casi ancora oggi, lavorano e operano con noi, tra le tante la Cooperativa Insieme di Bratunac (Srebrenica) e tanti legami che non si sono mai spezzati ne interrotti.