Sono passati più di 40 anni da quando noi della FGCI insieme ad altri convocammo la prima grande manifestazione il 24 ottobre del 1981 da cui prese le mosse quel grande movimento per la pace che segnò profondamente una fase della storia italiana e non solo.
Quarant’anni sono un tempo lunghissimo, soprattutto in un mondo frenetico come quello di oggi e la memoria rischia di confondersi. Non solo, c’è anche il rischio di cadere in una maledetta nostalgia, o peggio ridursi come quegli anziani che seduti sui ricordi annebbiati del loro passato vogliono spiegare a chi è venuto dopo cosa deve fare.
Spero di non cadere in questi rischi e se oggi ricordo qui quegli anni è innanzitutto per ricordare Tom Benetollo, un compagno e un amico che fu fondamentale per lo sviluppo di quel movimento e per cercare, pur nelle profonde differenze tra ieri e oggi, qualche elemento che ci possa aiutare in questi anni così difficili.
Con Tom ci incontrammo nei primi anni 70, lui a Padova e io a Milano, ed entrambi diventammo funzionari della FGCI, anche se a noi piaceva definirci “rivoluzionari di professione”.
Erano anni di grandi entusiasmi e di grandi passioni condivise, e sentivamo forte il senso di appartenenza a quella grande comunità che era il comunismo italiano, e fummo fortunati.
Quella comunità, quella militanza per molti di noi dava un “senso” alla vita, anche se la nostra adesione al partito non era un atto fideistico.
Ci sentivamo parte di un movimento collettivo che aveva l’ambizione di cambiare il mondo, di costruire una società di liberi e uguali. Il nostro sguardo era sempre attento a cosa succedeva nel mondo, ci appassionavamo per il destino di movimenti di liberazione in ogni parte del pianeta. D’altra parte militavamo in un partito in cui la relazione del segretario di sezione (allora si chiamavano così…) del più sperduto paesino iniziava comunque dall’analisi sulla situazione internazionale.
Ci trovammo a Roma nei primi anni ’80, forse anche un po’ casualmente.
Quando D’Alema mi propose di diventare segretario della FGCI nel settembre del 1979, caddi dalle nuvole e dissi che non ero disponibile e che non ero in grado.
E forse anche per Tom fu un po’ così quando gli proposi di venire a Roma in segreteria nazionale a seguire le questioni internazionali e della pace.
Eravamo disinteressati alla carriera politica, alle convenienze personali oggi così diffuse, e forse proprio questo disinteresse ci portò a compiere scelte con una certa dose di “incoscienza” che altrimenti forse non avremmo fatto.
Tom era un compagno alto, grande, lo ricordo timido e determinato, con un sorriso dolce e aperto, curioso come pochi.
Era legatissimo alle sue radici, alla sua storia familiare, la rivendicava con orgoglio. E fortissimo era il suo senso di appartenenza al comunismo italiano. Questa “doppia identità “ gli permetteva una grande apertura verso il nuovo, verso qualsiasi fenomeno spaziando dalla politica, alla musica, alla cultura.
Non a caso da giovane collaborò come critico musicale ad una rivista di settore, ed era aggiornatissimo su ogni nuova tendenza musicale. Ma conservo ancora una vecchia cassetta per registratore, quelle che si usavano una volta, che mi regalò in quegli anni, in cui aveva registrato la veglia per il Vietnam tenutasi a Roma nel 1965, che inizia con l’inno del Fronte di Liberazione Nazionale del Vietnam, un messaggio del FLN, e poi si alternano canzoni e discorsi tra cui quelli Giorgio La Pira e Giancarlo Pajetta. Tom e io ci trovammo a dirigere la fgci nei primi anni ’80.
Alle nostre spalle avevamo gli entusiasmi dei primi anni ’70, la vittoriosa lotta del popolo vietnamita, il successo nel referendum sul divorzio, e ancora l’avanzata della sinistra alle amministrative del ’75 e alle politiche del’76.
Certamente ci furono anche sconfitte, arretramenti, e pesò sulla nostra generazione il golpe in Cile che pose fine al governo di Salvador Allende. Furono anche gli anni della strategia della tensione che insanguino’ il paese a partire dalla strage di piazza Fontana a Milano, ma il processo di trasformazione della società ai nostri occhi pareva inarrestabile, e fondamentale era il consenso dei giovani al partito comunista.
Nella seconda metà degli anni ’70 cambia il clima nel paese, l’esperienza dei governi di unità nazionale si arena nelle resistenze della dc e alle pressioni e ai veti internazionali, settori consistenti delle nuove generazioni sono preda della violenza e del terrorismo, fino al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro. È in quegli anni che si produce una rottura tra i comunisti italiani e le nuove generazioni. Non è qui la sede per una riflessione anche sugli errori e sui ritardi della sinistra. Ma certamente furono anni difficili.
Il rifiuto radicale della violenza che segnò molti di noi a partire da Tom, e che lo accompagnò tutta la vita penso che maturi proprio in quegli anni, nel vissuto della sua Padova, una delle roccaforti dell’autonomia operaia in cui era anche pericoloso militare nella fgci.
L’obbiettivo che ci ponemmo quando arrivammo alla direzione della fgci era di cercare le forme e i contenuti che permettessero di ricostruire un canale di comunicazione, un rapporto, tra i comunisti e le nuove generazioni. Era inutile cercare di essere il megafono del partito, non serviva più. Dovevamo cercare e cercare ancora.
Il primo atto fu l’impegno di solidarietà durante il terremoto dell’Irpinia. Non potevamo limitarci alle denunce sui ritardi nei soccorsi, e in poche ore decidemmo di organizzare migliaia di giovani che portarono il loro aiuto e la loro solidarietà alle popolazioni terremotate, arrivando spesso dove lo stato era assente. Fu una risposta straordinaria, e il gruppo dirigente era nei luoghi del terremoto insieme ai volontari, “dovevamo esserci “.
Se ripensiamo alla storia di Tom, quel “dovevamo esserci” ha segnato tutta la sua vita, in mezzo alle guerre e alle sofferenze dell’umanità.
Sentivamo nel contempo che qualcosa stava agitando le coscienze, lo vedevamo nel cinema, nella musica dove una canzone come “futura” di Lucio Dalla stava avendo una grande popolarità, nei primi fermenti pacifisti in Inghilterra e in Germania, in un nuovo interrogarsi intorno al tema della pace e della guerra nel mondo intellettuale, mentre ombre minacciose cominciavano ad avvicinarsi.
Pochi lo ricordano, anche perché non segnò un’epoca, ma nell’estate del 1980 organizzammo a Livorno la festa nazionale proprio sui temi internazionali. E a dimostrazione della nostra “incoscienza” una sera la dedicammo alle elezioni francesi e alla vittoria di Mitterand invitando come unica ospite Rossana Rossanda, cosa non usuale in quegli anni. E forse la cosa non suscitò grandi entusiasmi nel partito…
A ottobre ci fu la prima manifestazione contro i missili Pershing e Cruise a Rapolano in provincia di Siena con un lungo corteo tra i campi in quanto era uscita la notizia che quella poteva essere la base dove installare i missili.
Nel frattempo cresceva un allarme sui destini dell’umanità; era ricominciata la corsa al riarmo nucleare.
Da una parte l’unione Sovietica aveva installato ai confini dell’Europa i missili SS20, dall’altra la Nato rispondeva con i missili pershing e cruise.
“L’orologio dell’Apocalisse “, ideato da scienziati americani nel 1947 e che metaforicamente indica quanti minuti mancano all’esplosione della guerra atomica e alla fine dell’umanità, segnava solo tre minuti alla mezzanotte.
Negli Stati Uniti l’elezione di Ronald Reagan venne vista con preoccupazione da più parti. Ricordo una comunicazione nella direzione del PCI fatta da Paolo Bufalini, storico dirigente del partito e uomo di grande prudenza sulle elezioni americane: usò toni allarmanti e in latino disse che quella data “dies nigro signanda lapillo!”.
Ma insieme alle preoccupazioni, cresceva una spinta alla mobilitazione.
In questo clima decidemmo come Fgci di promuovere con altri una manifestazione nazionale a Roma il 24 ottobre del 1981.
La piattaforma affermava il rifiuto della corsa al riarmo e l’obbiettivo di costruire un’Europa senza missili dal Portogallo agli Urali; si affermava con forza il carattere universalistico del movimento della pace, che non si schierava da “una parte” nella corsa al riarmo, ma si schierava dalla parte della difesa dell’umanità e della pace. Era una novità anche rispetto alle mobilitazioni internazionaliste del passato, che indicavano un alleato e un nemico; qui il nemico era la guerra e la corsa al riarmo
Sottolineo il carattere universalistico di quel movimento della pace, perché è quello di cui oggi avremmo bisogno e che si vuole impedire dinnanzi a un mondo segnato dalle guerre, dalla tragedia in Ucraina e nel medio oriente; la parola pace è diventata una bestemmia, l’invito alla trattativa un tradimento.
Del comitato promotore facevano parte diverse organizzazioni, dalle forze alla nostra sinistra, alle organizzazioni del mondo cattolico tra cui “Pax Christi” e “Beati i costruttori di pace”, e se ricordo bene all’inizio partecipava anche il partito radicale con Francesco Rutelli e la la lega obiettori di coscienza.
Le riunioni si tenevano alla sede della fgci in Via della Vite a Roma. Erano riunioni simili alle riunioni di un collettivo studentesco piuttosto disordinato, talvolta comparivano rappresentanti di nuovi comitati che rimettevano tutto in discussione.
In queste discussioni Tom Benetollo era straordinario; non alzava mai la voce e con una pazienza infinita ascoltando tutti ricominciava a tessere le fila del dialogo e della ricerca di possibili mediazioni.
Una quindicina di giorni prima della manifestazione dal partito mi arrivò la richiesta di ritirare la firma dai promotori della manifestazione, in quanto sbilanciata politicamente e con rischi di minoritarismo. Il compagno che mi faceva questa richiesta era un compagno autorevole della segreteria; lo ascoltai ma risposi che noi non ritiravamo la firma e che secondo me il partito stava sbagliando e noi andavamo avanti.
Non nascondo che ero un po’ turbato, non era così semplice dire no al “grande Partito”. Andai subito da Tom a raccontargli della telefonata, gli chiesi cosa pensava e ricordo che gli domandai “Tom, siamo sicuri che la manifestazione sarà grande?”, e lui con la sua voce tranquilla disse solo “andiamo avanti, sarà grandissima “. Potevamo reggere la tensione col partito…
Procedemmo con le riunioni e con l’organizzazione della manifestazione mentre i contatti col partito si erano interrotti. Pochi giorni prima del corteo, tre o quattro giorni, mentre eravamo riuniti nella ennesima riunione del comitato promotore nella sede della fgci, arrivò agitata la compagna Vittoria, nostra segretaria meravigliosa, e mi sussurrò “C’è Berlinguer al telefono!”.
Non era usuale che Berlinguer telefonasse di persona al segretario della fgci e già questo mi allarmava; mi disse che aveva visto l’appello della manifestazione e propose due leggere modifiche al testo, che gli dissi subito ritenevo assolutamente accettabili da tutti. Allora Berlinguer mi disse “Se è così informa tutti che il PCI aderisce alla manifestazione.”
La manifestazione fu grandissima, colorata, allegra, pacifica, con migliaia di giovani. Ricordo che all’inizio del corteo, con la piazza già piena, venne Pio La Torre, mi mise il braccio sulla spalla e mi disse “avevate ragione voi”. Pochi giorni dopo Pio La Torre lasciò la segreteria nazionale per tornare nella sua Sicilia dove si buttò con tutto se stesso nella mobilitazione contro i missili a Comiso e nella lotta contro la mafia fino a che non fu fermato da un attentato mafioso il 30 aprile del 1982 insieme al compagno Rosario Di Salvo.
Ripensando a quel periodo è evidente che c’era una discussione complicata nel partito, non sul rifiuto della corsa al riarmo, (il pci aveva organizzato una grande manifestazione già nel febbraio del 1980 a Firenze con lo slogan “prima di tutto la pace”), quanto sulla disponibilità a investire e a impegnarsi in un movimento che aveva caratteristiche nuove e originali. Pesavano forse le ferite e le preoccupazioni del ’77, e soprattutto la preoccupazione da parte di alcuni di un acuirsi dello scontro col governo e col Partito Socialista.
Certamente quella manifestazione, con quella partecipazione imponente di giovani segnò la discussione nel pci. Poche settimane dopo Enrico Berlinguer scrisse un articolo su Rinascita, “Rinnovamento della politica e rinnovamento del Pci “, che segna a mio parere uno dei punti più avanzati dell’innovazione della cultura comunista portando all’estremo il rapporto tra identità e rinnovamento.
L’articolo inizia così: “Lo sviluppo impetuoso del movimento per la pace, caratterizzato da contenuti e forme di partecipazione in parte diversi da quelli propri dei partiti, ci consente di riproporre il tema delle novità che si vanno manifestando nel rapporto tra le masse e la politIca”. E più avanti sottolinea ancora i suoi caratteri del tutto nuovi e quella “grandiosità che ha sbalordito tutti”. Erano novità profonde che certamente non erano per tutti scontate e condivise. Proprio rispetto a questa ultima fase della direzione di Berlinguer, ci furono allora divisioni nel gruppo dirigente e ancora oggi l’ultimo Berlinguer viene spesso raccontato da una critica superficiale e faziosa come un uomo arroccato e sconfitto. La verità è il contrario; in quegli anni matura la rottura coi paesi dell’est, (“si è esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre “), la cultura dei comunisti italiani si apre alle nuove contraddizioni e alle nuove culture a partire dal femminismo, dall’ambientalismo e dal pacifismo, che hanno la “stessa dignità” della questione sociale; è forte l’allarme per la crisi della democrazia italiana; se guardiamo al mondo di oggi sono le questioni squadernate davanti alla politica e alla sinistra e purtroppo per troppo tempo rimosse.
Ripeto, già allora non tutto era semplice nella discussione del pci, ma riparandoci dietro alla nostra autonomia noi della fgci ci muovevano con una certa libertà.
Ricordo due momenti di tensione che mi videro coinvolto in prima persona e mi scuso per il riferimento personale. Il primo riguarda una discussione durissima con il compagno Tortorella, a cui mi lega una fortissima intesa politica e umana, e che fu decisivo nella apertura del pci al movimento. Dovevo fare una comunicazione alla segreteria del partito, se ricordo bene sui blocchi alla base militare di Comiso, e Tortorella voleva convincerci ad ammorbidire alcune posizioni. Il colloquio non fini’ bene. La mattina seguente, dopo la mia comunicazione, il primo a prendere la parola fu proprio
Tortorella che ci sostenne e fu decisivo per l’esito positivo della riunione; il giorno precedente cercava solo di ammorbidire le nostre posizioni per “proteggerci…”.
Il secondo ricordo si riferisce a un comitato centrale dopo l’approvazione da parte del parlamento dell’installazione dei missili a Comiso. Intervenendo criticai “un po’ duramente” il gruppo parlamentare perché non aveva esercitato l’ostruzionismo in aula. Nella replica Berlinguer polemizzo’ in maniera molto aspra con me. Forse avevo anche esagerato, ma soprattutto non avevo considerato che capogruppo alla camera era Giorgio Napolitano.
Comunque è certo che da quel 24 ottobre cambia tutto: e da quel giorno il movimento della pace si sviluppò in mille direzioni, mantenendo sempre il suo carattere universalistico e plurale. Dalle manifestazioni in Sicilia guidate da Pio La Torre alla campagna per i comuni denuclearizzati, alla marcia Milano-Comiso che attraversò tutto il paese in una staffetta con migliaia di manifestanti. E ancora le marce pacifiste Perugia Assisi nel solco aperto da Aldo Capitini, fino ai blocchi contro la costruzione della base di Comiso.
Grazie anche a Tom i giovani comunisti furono con altri protagonisti di queste mobilitazioni, facendosi attraversare anche da forme e linguaggi estranei alla tradizione dei comunisti italiani. A proposito dei blocchi non violenti alla base di Comiso, ricordo quando decidemmo di circondare la base militare. Era agosto, faceva un caldo torrido ma tutto pareva procedere tranquillamente. A un certo punto la situazione precipitò, una sirena della polizia cominciò a suonare e arrivarono carabinieri e polizia con caschi e manganelli mentre i manifestanti si erano seduti per terra con le mani alzate cantando “we shall overcame”. Noi ci mettemmo in prima fila con Luciana Castellina, Massimo Serafini, Famiano Crucianelli e altri con la “presunzione” che la nostra “presenza” avrebbe frenato la violenza delle cariche….ovviamente ci ritrovammo tutti al pronto soccorso! Quel giorno, il partito comunista in cui i vecchi dirigenti che hanno segnato la storia della sinistra italiana non avevano risparmiato ironie verso di noi, fece un comunicato ufficiale della segreteria nazionale di solidarietà ai manifestanti e ai feriti e contro le cariche della polizia.
Quel movimento aveva certo limiti e difetti, ma se guardiamo al nostro continente, quella parola d’ordine, “una Europa senza missili dal Portogallo agli Urali“ che Tom sempre ci ricordava, era l’unica utopia realistica e concreta. Il paradosso è che quella utopia fu praticabile ancora di più quando la guerra fredda fini’ col crollo dell’URSS e del patto di Varsavia e iniziò una prima fase di distensione; con la vittoria dell’occidente e la fine dell’equilibrio del terrore c’erano le condizioni per aprire un processo di integrazione, di inclusione, di cooperazione tra i popoli e gli stati. La storia è andata in un’altra direzione e come spesso succede si vendica dei nostri errori, è ripartita la corsa al riarmo mentre si teorizzava l’esportazione della democrazia e le guerre giuste, e oggi il mondo è più diviso di ieri e siamo travolti dalla guerra in Ucraina e in Medioriente.
Ha scritto Edgard Morin: “Stiamo andando verso delle probabili catastrofi. Si tratta di catastrofismo? Questa parola esorcizza il male e da una serenità illusoria”.
Da un lato si teorizza che la guerra è inevitabile, dall’altro non bisogna essere catastrofisti perché la pace nel mondo non è in pericolo, e non essendo in pericolo chi si batte per la ricerca di una soluzione ai conflitti diventa un complice del nemico. La parola pace diventa impronunciabile, una bestemmia, l’unico imperativo è avanti fino alla vittoria, sul sangue di migliaia di morti. Viene colpito al cuore il carattere universalistico del movimento della pace. In quella cassetta che mi regalò Tom, Giorgio La Pira, sindaco democristiano di Firenze e uomo di pace, cita una frase di Kennedy; “L’umanità deve porre fine alla guerra o la guerra porrà fine all’umanità”.
Rimane il Papa, ma il suo messaggio viene derubricato a un richiamo religioso, e la sua voce risuona spesso isolata; come è possibile?
I nostri genitori avevano vissuto la seconda guerra mondiale, le ferite e i lutti di quella tragedia. Noi eravamo cresciuti coi racconti di quelle vicende, nelle nostre città vedevamo ancora le macerie dei bombardamenti. La guerra era una tragedia vicino a noi, la toccavamo, ricordo ancora il clima che si viveva durante la crisi dei missili a Cuba nel 1962, la paura quando mi coricavo di non svegliarmi più.
La paura per i destini dell’umanità era un sentimento profondo, reale. Questo era il vissuto in cui eravamo cresciuti. Oggi viviamo travolti da immagini, vediamo le macerie, i morti, il sangue, in un incubo senza fine; eppure si dice che la guerra è lontana, l’idea stessa è confinata in un passato
lontano di barbarie che per qualche ragione del destino non può tornare, quando è già qui in Medioriente e in Ucraina.
Occorre un sussulto, una reazione. Deve alzarsi forte una voce che dica una parola semplice, “Fermatevi! Tutti”, e che dia una sponda anche a chi “dall’altra parte “è contro la guerra. È impressionante la leggerezza in cui leader cosiddetti di stato si rincorrono in un’escalation di toni guerreschi annunciando un conflitto mondiale a breve, in una irresponsabilità che lascia attoniti.
Il movimento della pace deve recuperare il suo carattere universalistico per riprendere voce.
Tom ci manca. Manca al movimento pacifista, manca alla sinistra. Ricordo l’ultimo incontro che abbiamo avuto, c’era anche Pietro Folena. Ragionavamo sulla sinistra e sul ruolo che noi pensavamo dovesse assumere Tom come leader di una sinistra rinnovata. Tom era combattuto, e ricordo che scherzando, quando ci salutammo, gli dissi “da ora in poi non sarò più io il tuo segretario (era il vezzo ironico con cui mi chiamava), ma sarai tu il mio segretario “.
Purtroppo non abbiamo avuto tempo.