I lettori di “Pace in Movimento” hanno più volte, scorrendo i decenni passati, incontrato l’occupazione dei territori palestinesi, il conflitto israelo-palestinese e le grandi mobilitazioni per la pace giusta che lo hanno sempre accompagnato.
Si tratta del conflitto più longevo e irrisolto a livello globale, sin da quegli anni Venti del Novecento in cui le potenze coloniali europee si spartirono i territori dell’Impero Ottomano, e poi dall’occupazione dei territori palestinesi seguita alla creazione dello Stato di Israele nel 1948. Tra i principali elementi di instabilità regionale, le speranze degli accordi di pace di Oslo sono andate sgretolandosi di anno in anno, a partire da quel 4 novembre 1995 in cui il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin fu ucciso da un fanatico sionista alla fine di una manifestazione in sostegno di quegli accordi. Nessuno dei premier israeliani successivi, chi più chi meno, ebbe più la volontà politica di tenere in vita il processo di pace: come dimostra l’aumento delle colonie e dei coloni nei territori occupati da Israele in cui secondo quegli accordi e le innumerevoli risoluzioni Onu, avrebbe dovuto sorgere lo Stato di Palestina.
Dopo la fine della Seconda intifada (2005) l’attenzione verso il popolo palestinese a livello di comunità internazionale, è andato progressivamente a scemare: le leadership politiche occidentali, regionali e locali hanno alimentato la convinzione che la questione palestinese fosse ormai “contenibile” attraverso un sistema di apartheid , muri e reticolati che dividevano case e villaggi palestinesi; un sistema di check point sempre più esteso e assillante; Gaza, “liberata” nel 2006 dalle truppe israeliane, in realtà ridotta ad una prigione a cielo aperto (l’area urbana con la più altra densità umana del pianeta terra); l’aumento delle colonie e della confisca delle terre.
Il radicamento di Hamas nella Striscia, la perdita di prestigio dell’ANP, Autorità Nazionale Palestinese, specialmente tra le nuove generazioni, hanno finito per dividere la società palestinese che, con la scomparsa di Yasser Arafat, si è trovata senza più una guida unitaria ed autorevole. In più il cambio demografico della società israeliana con l’arrivo di decine di migliaia di ebrei provenienti dall’est Europa e dall’area dell’ex Unione Sovietica (1,5 milioni di cittadini israeliani sono di lingua russa), uomini e donne affamati di terre e case, hanno spinto da un lato alla marginalizzazione di forze storiche laiche come il Labour Party e il Meretz, dall’altro alla crescita di forze messianiche, fondamentaliste, razziste e di estrema destra.
Lo snaturamento delle due società, il rafforzarsi in entrambe di posizioni estremiste e fondamentaliste, l’ignavia e la complicità della comunità internazionale rispetto al perdurare e all’aggravarsi dell’occupazione e dell’apartheid non poteva che portare ad una situazione drammatica. In particolare l’attuale governo Netanyahu ha rivendicato con orgoglio di aver sempre boicottato il processo di Oslo e qualsiasi soluzione a due Stati a tal punto da cancellare, nelle sue conferenze internazionali, le parole Palestina e palestinesi. D’altronde i garanti degli accordi di Oslo, Usa ed Unione Europea, hanno introiettato la politica dei “due pesi e due misure”, da un lato accarezzando l’idea della cosiddetta “pace di Abramo” ovvero una pace tra Israele e i Paesi arabi che cancellasse le aspirazioni ad una Patria ed ad una terra dei palestinesi, dall’altro lato garantendo ad Israele sempre e comunque, aldilà dei timidi richiami alla moderazione, il sostegno alle proprie iniziative militari e all’espansione delle colonie. Ma la stessa fiducia israeliana di “contenere” i palestinesi attraverso una brutale repressione e l’uso della più sofisticata e moderna tecnologia di controllo è saltata in aria in modo tragico il 7 ottobre 2023.
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LA GUERRA MONDIALE A PEZZI
Il massacro del 7 ottobre, il genocidio di Gaza
L’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite riconosce ai popoli occupati il diritto di resistenza, anche armata. Ma il diritto internazionale e umanitario vieta anche a chiunque – Stati, resistenti, organizzazioni – di uccidere i civili. Il 7 ottobre è stato un massacro di 1200 civili inermi, un crimine di guerra per il diritto internazionale; sono stati commessi stupri, altre atrocità e prese in ostaggio 250 persone, fra cui circa 30 bambini, evidenziando quanta violenza e quanto odio siano ormai diffusi nella regione.
Sull’onda emotiva prodotta da quei crimini, Israele ha di fatto ricevuto una cambiale in bianco dagli alleati occidentali che hanno ribadito il diritto d’Israele a difendersi. Questo diritto alla difesa si è, nel giro di poche ore, trasformato in un diritto alla vendetta e alla rappresaglia collettiva contro tutta la popolazione della Striscia di Gaza. Si è operato in Occidente anche il tentativo di far partire la storia stessa del conflitto israelo/palestinese dal 7 ottobre 2023, cancellando anche dalla memoria i decenni di sofferenza inflitti dall’occupazione israeliana ai palestinesi, il loro diritto alla resistenza contro l’occupazione e all’autodeterminazione.
Ad oltre un anno la contabilità di morti e dei feriti a Gaza è in continuo tragico aggiornamento. A quando scriviamo questo pezzo (5/11/2024) i morti accertati nella Striscia sono 43.341 mentre I feriti sono 102.105. Moltissimi di loro sono donne, bambini e bambine. A questi deve essere aggiunto un numero imprecisato di morti ancora sepolti sotto le macerie e di cui non è stato possibile recuperare i corpi. L’80% della Striscia è ridotto in polvere, il servizio idrico è collassato, non esiste un posto sicuro dove trovare riparo e i bombardamenti colpiscono anche luoghi protetti dal diritto internazionale come ospedali, scuole, luoghi di culto. Deliberatamente si sono uccisi centinaia di operatori umanitari, più di 185 giornalisti, tantissimi medici ed infermieri. Sono ormai migliaia gli arresti arbitrari – non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania- operati nei confronti dei palestinesi (tra i quali centinaia di minori) molti dei quali sottoposti a torture o ridotti alla fame. Già ai primi di ottobre 2024, sulla popolazione di Gaza erano state lanciate oltre 80mila tonnellate di bombe, un quantitativo di esplosivo quattro volte superiore a quello lanciato dagli Usa nel 1945 a Hiroshima. Nell’agosto sono stati proprio gli Usa a rifornire di nuove armi Israele, cosa che consente a Tel Aviv di proseguire la guerra ed espanderla contro altri Paesi.
Nella Striscia manca tutto. Si beve acqua dalle fogne o acqua di mare. Le malattie infettive si sono decuplicate. La poliomielite, malattia debellata da decenni, è tornata a colpire i più fragili. La fame, la sete, in estate il caldo ed adesso il freddo dell’inverno alle porte, sono usati come strumenti di guerra. La catastrofe umanitaria è tale che ha spinto la Corte Internazionale di Giustizia, su iniziativa del Sudafrica, ad aprire un procedimento contro Israele per potenziale violazione della Convenzione internazionale contro il genocidio. Il procuratore della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha chiesto il 20 maggio 2024 mandati d’arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Il Ministro della Difesa Gallant e per i leader di Hamas sospettati di aver commesso crimini contro l’umanità.
La stessa vicenda degli ostaggi israeliani rapiti durante il 7 ottobre vede, ogni giorno che passa, diminuire la probabilità di liberarli. Non si sa nemmeno quanti di loro siano rimasti in vita, quanti siano morti sotto i bombardamenti, o siano stati uccisi, deliberatamente dai rapitori o “per errore” dall’esercito israeliano. La coraggiosa quasi quotidiana protesta dei loro parenti è riuscita a scuotere solo in parte le coscienze del popolo israeliano, mentre è chiaro il totale disinteresse del governo a trovare una soluzione. A parte la breve tregua del 24 novembre 2023, che ha consentito il rilascio di 13 ostaggi e 150 detenuti palestinesi, tutti i tentativi di trovare una soluzione negoziata che portasse almeno ad un cessate il fuoco sono stati apertamente boicottati.
La delegittimazione dell’Onu, definito da Netanyahu nel suo intervento all’assemblea generale dell’ottobre scorso come “una palude antisemita”, ha raggiunto livelli senza precedenti. Il Segretario Generale António Guterres è stato dichiarato da Israele “persona non gradita”, mentre due leggi della Knesset, il parlamento israeliano, hanno messo fuorilegge l’UNRWA, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi. Nelle operazioni militari contro Hezbollah in Libano, sono stati deliberatamente colpite le postazioni del contingente dei caschi blu dell’Unifil.
All’incapacità o la non volontà di giungere a una tregua, il proseguo delle attività israeliane nella Striscia, il costante ampliarsi delle violenze dell’esercito e dei coloni in Cisgiordania, si uniscono adesso i bombardamenti e i combattimenti in Libano, nello Yemen, sulla Siria e anche sull’ Iran. La guerra alimenta altra guerra e la comunità internazionale sembra incapace di fermarla. Tutto l’Occidente continua, a parte inutili appelli, a sostenere Israele dal punto di vista diplomatico, economico e militare. Gli esiti della guerra sono quanto mai incerti, ma è evidente che il Medio Oriente che abbiamo conosciuto finora è già profondamente trasformato, così come il peso e i ruoli dei vari attori regionali e internazionali coinvolti. Molti osservatori valutano che il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump rappresenti un via libera ancora più ampio alla soluzione finale: la pulizia etnica della Striscia e l’annessione di nuovi territori in West Bank.
Quando scriviamo siamo ancora in mezzo a questa catastrofe umanitaria, politica e del diritto internazionale.
La mobilitazione per fermare il massacro e il genocidio.
In tutto il mondo si sono registrate manifestazioni, proteste, mobilitazioni, raccolte di fondi per fermare il massacro a Gaza. Le parole d’ordine “Stop al genocidio” usate per prima dagli studenti statunitensi anche di fede ebraica, hanno contagiato la mobilitazione globale specialmente quella giovanile.
In moltissime città italiane si sono tenute sin dal mese di ottobre 2023 manifestazioni, dibattiti, assemblee, iniziative nelle scuole, nelle università, nei circoli e nelle parrocchie sulla guerra in Medio Oriente (METTERE LINK con esempi).
Particolarmente significativi:
- gli accampamenti per la pace, che hanno visto protagonisti gli studenti universitari in diversi atenei;
- la Carovana solidale per Rafah che si è svolta tra marzo ed aprile 2024 sul lato egiziano del deserto del Sinai, con società civile e parlamentari per la pace;
- il tour per l’Italia di obiettori israeliani e pacifisti palestinesi organizzato dal Movimento Nonviolento.
Un forte rilancio ha avuto, da parte del comitato italiano, la campagna BDS, Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni per i diritti del popolo palestinese.
Tutte iniziative preziose, come i coordinamenti unitari creati in tantissime città; purtroppo però a livello nazionale il movimento per la pace non è riuscito ad essere ampio e unitario come avrebbe potuto e dovuto, e non si è riusciti ancora a saldare le mobilitazioni delle comunità e dei giovani palestinesi con quella dei tradizionali cartelli del mondo associativo e sindacale. Diversità di analisi e di approccio, sia sulla valutazione di ciò che era accaduto il 7 ottobre che anche sulla parola d’ordine “due popoli, due Stati” (definita da molti anche in Israele e Palestina ormai irrealistica e fuori tempo massimo), hanno connotato in piazze diverse i cortei che pure, spesso a cadenza settimanale, si sono tenuti in questo anno di guerra.
Anche nel mondo ebraico, nonostante alcune importanti prese di posizione sia individuali che collettive, non c’è stata una mobilitazione analoga a quella dei tanti ebrei americani che hanno gridato “Not in my name!”. E le paure e ambiguità di tanta parte del mondo politico e sindacale italiano hanno reso ancora più difficile una mobilitazione unitaria delle dimensioni che la tragicità della situazione avrebbe richiesto.
Un tentativo di dialogo tra aree e generazioni diverse è stato percorso durante la mobilitazione nazionale in sette diverse città “Il tempo della pace è ora” del 26 ottobre 2024 promossa da Europe for Peace, Rete italiana Pace e Disarmo, Fondazione Perugia Assisi per la cultura della pace, AssisiPaceGiusta e Sbilanciamoci. In particolare quella svoltasi a Firenze ha visto una grande convergenza di reti diverse, dando vita ad una manifestazione grande e partecipata.
Nello stesso periodo, ha preso avvio un percorso verso la costruzione di una rete nazionale per la Palestina, su iniziativa del coordinamento romano che vede insieme organizzazioni italiane e palestinesi contro il genocidio, il sionismo e contro l’occupazione. Una assemblea nazionale a Roma il 9 ottobre, una grande manifestazione a Roma il 30 novembre, una seconda assemblea il 1 dicembre hanno segnato le prime tappe di questo percorso teso ad allargare e consolidare un fronte di iniziativa politica, sociale e culturale.
Noi di “Pace in movimento” continueremo a seguire queste e altre iniziative, e (con il vostro aiuto) a darne conto su questo sito. Come abbiamo scritto nel presentare la storia di questi quarant’anni di pacifismo “è stato l’insieme di percorsi e strumenti differenti, contro la guerra e per la pace, a fare la forza di questo movimento”.
D’altronde la tragedia che si sta consumando in quella “piccola porzione di terra” sta anche alimentando nel mondo intero una spirale di antisemitismo e islamofobia, spettri con antiche radici nella nostra “nobile Europa”, ma che proprio per questo impongono ai pacifisti un’attenzione e una mobilitazione continua. Nonostante le enormi difficoltà il movimento per la pace rappresenta il miglior antidoto alla barbarie della guerra e impone a tutte e tutti di fare ogni sforzo per ricostruirne la forza e l’incisività politica.