Le scene sono entrambe apocalittiche. Una è trasmessa in diretta TV: la folla di uomini, donne e bambini all’aeroporto di Kabul che cercano disperatamente di salire su un aereo e trovare riparo all’estero. L’altra è più nascosta e si consuma ogni giorno: l’invasione di terra delle truppe di Ankara del cantone siriano a maggioranza curda di Afrin e i continui bombardamenti nel Kurdistan iracheno e siriano. Cosa unisce queste due tragedie? Il tradimento della NATO.  

Nel primo caso le armate occidentali dovevano liberare il popolo afghano ed in particolare le sue donne dal giogo del regime fondamentalista e reazionario dei Talebani. Nel secondo si abbandona chi, per conto anche del mondo occidentale, aveva versato il proprio sangue per cacciare il mostro di Daesh da Raqqa e Mousul, le due capitali del califfato nero dell’Isis. Popoli usati per giustificare la guerra e poi abbandonati al loro destino quando per Washington e la “civile” Europa non servivano più. L’ordine è dimenticare gli afghani ed i curdi. Superare ogni imbarazzo. Bloccarli anche sulle navi nel Mediterraneo dove sono tra le nazionalità principali di quella marea umana alla deriva e che cerca riparo sulle nostre coste. 

  • Kabul come Saigon: fuga con disonore

Passano davanti agli occhi le scene di disperazione all’aeroporto. Il 15 agosto 2021 è la data della grande fuga. I bambini buttati di là dalle reti nelle mani dei soldati e degli operatori umanitari per salvare loro la vita, gli uomini e le donne appesi ai carrelli dei voli stracarichi di persone in fuga dell’abisso del ritorno di un regime destinato a stravolgere il seppur fragile castello di diritti e di libertà costruito negli anni.

Le scene di Kabul riportano alla mente il ricordo dell’ignominiosa caduta di Saigon del 1975. Due decenni di presenza militare statunitense in Afghanistan sono svaniti nel giro di poche settimane. La vendetta collettiva inferta dagli Usa agli afghani per gli attentati dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers (per inciso: tutti gli attentatori erano sauditi) aveva cercato di ammantarsi e legittimarsi come una guerra per i diritti umani, la libertà e la democrazia.  Ma il risultato, come inutilmente gridavano i pacifisti nelle loro manifestazioni, è che la guerra non porta mai democrazia e sicurezza. Ed ora quelle scene, quelle mani disperate alzate sui reticolati….

Il ritorno dei Talebani nella capitale afghana segna il punto più basso della storia della NATO, la cui ventennale missione ha avuto enormi costi umani ed economici. Secondo un rapporto del progetto Costs of War della Brown University  il costo della guerra globale al terrorismo ammonta a 8 trilioni di dollari e 900.000 morti. Il bilancio delle vittime, include militari statunitensi, combattenti alleati, combattenti dell’opposizione, civili, giornalisti e operatori umanitari uccisi come conseguenza diretta della guerra, sia da bombe, proiettili o armi da fuoco. Non include, hanno osservato i ricercatori, le numerose morti indirette causate dalla guerra al terrore tramite malattie, sfollamenti e perdita di accesso al cibo o all’acqua potabile.

La presenza di truppe Usa sul terreno in Afghanistan aveva raggiunto, durantel’amministrazione di Barak Obama, la cifra di 110.000 militari. Uno sforzo bellico colossale.  

Ma anche l’Italia si è svenata per sostenere la presenza di truppe di occupazione nel paese asiatico. Secondo l’Osservatorio sulle spese militari italiane MIL€X,  i 20 anni complessivi di presenza italiana hanno comportato l’esborso di 8,7 miliardi di euro dei quali ben 840 milioni relativi a contributi diretti alle Forze Armate afghane (quest’ultime letteralmente vaporizzate due giorni dopo il ritiro delle truppe occidentali).

  • La solidarietà con le donne afghane

Tre anni sono passati da quando Kabul è ritornata nelle mani dei talebani. Il Paese, che intanto ha affrontato a mani nude e senza aiuto internazionale anche un terribile terremoto che lo ha ridotto in macerie, è tornato nel buio del fondamentalismo religioso. Le donne in particolare allontanate dalle scuole, dai luoghi di lavoro, infine cancellate dalla vita sociale in un inferno presto dimenticato da tutti. 
La solidarietà del popolo e della società civile italiana c’è invece stata ed è giusto ricordarla. Nell’accoglienza in primo luogo degli oltre 5mila afghani arrivati nel nostro Paese nelle prime settimane, per lo più collaboratori di missioni internazionali, attivisti, giornalisti e membri delle minoranze etniche. Infine con l’accordo sull’apertura di corridoi umanitari, siglati tra ministero dell’Interno e degli Esteri con la Cei (attraverso Caritas Italiana), Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese, Arci,  che da quel 2021 a più riprese hanno consentito l’arrivo di quasi 2mila persone.  Nel nostro Paese ci sono oltre 10mila afghani oggi, più uomini che donne (sebbene siano queste ultime, si è detto, a pagare lo scotto più alto del ritorno del regime).

Dal 2003 è Pangea onlus che segue progetti di scambio e sostegno delle donne in Afghanistan cosi come è molto attivo in Italia il CISDA  il Coordinamento italiano sostegno alle donne afghane. In particolare è forte la relazione con RAWA Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane). È una delle organizzazioni femminili afghane indipendenti più attive ed affermate in campo sociale e nella sfera politica con la sua lotta contro il fondamentalismo e l’oscurantismo religioso, denunciando pubblicamente i signori della guerra che si trovano tuttora in alte cariche governative e le responsabilità degli Usa e dell’Occidente nell’aver costruito, finanziato e legittimato regimi fondati sulla violazione dei diritti delle donne, ignorando e sopprimendo qualsiasi movimento democratico di opposizione.

  • Dimenticare Kobane: l’amnesia occidentale

Nonostante la coalizione anti-Daesh, voluta dagli Usa per contrastare lo Stato Islamico, abbia superato al settembre 2024 ben 86 paesi, è cambiato da alcuni anni il rapporto con i curdi, specialmente quelli siriani dell’amministrazione autonoma del Nord Est della Siria ( le regioni del Rojava e di Raqqa) . 

Sono in particolare lontani i tempi in cui Kobanê, città assediata dallo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, dal 13 settembre 2014 vide il sostegno attivo della coalizione alle milizie curde delle Unità di Protezione Popolare (YPG), tra le proteste della Turchia che le considerava (e le considera tuttora)  una organizzazione terroristica filiazione del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan).  L’offensiva fu completamente respinta dai curdi e dai loro alleati in una eroica resistenza costata moltissimi morti e feriti.  La vittoria di Kobane fu l’inizio di una serie di rovinose sconfitte militari per l’Isis fino alla liberazione delle sue due capitali a Raqqa (Siria) e Mosul (Iraq). 

Le milizie curde sostennero da sole anche il fronte della liberazione del Sinjar occupato da Daesh nell’ agosto 2014. Nella piana di Ninive era in corso infatti un vero e proprio genocidio della minoranza yazida per mano delle truppe guidate dal fanatismo di al-Baghdadi che rapirono 6.400 donne e bambini per farne schiave sessuali e soldati, e che uccisero altrettanti uomini e anziani perché “idolatri”. Nel 2018 venne assegnato il Nobel per la Pace a Nadia Murat, una giovane yazida sopravvissuta al rapimento dei miliziani di Daesh.

Il sostegno e la simpatia in Italia ed in Europa da parte di movimenti solidali – specialmente di giovani – nei confronti dell’amministrazione autonoma del Nord Est della Siria, ha continuato a svilupparsi dal 2014 ad oggi in innumerevoli progetti e mobilitazioni.
La rivoluzione dei curdi è basata sui principi del confederalismo democratico di Abdullah Ocalan: un’autonomia con forte connotato democratico, inclusivo, laico, plurale e con un fortissimo protagonismo delle donne e una grande attenzione alla questione ambientale. Pur dentro la contraddizione di un movimento guerrigliero che si batte per la pace, la soluzione alla vicenda curda ed in particolare il modello democratico proposto, sono una luce di speranza e di libertà in un’area caratterizzata da guerre fratricide, satrapi, fondamentalismi e odi tribali. Il Rojava ha provato a sottrarsi anche dalla guerra civile che ha insanguinato e sconquassato la Siria, attuando una zona libera per tutti quei siriani che, disarmati, cercassero rifugio dalla guerra indipendentemente dall’etnia o dalla fede religiosa professata. Purtroppo l’Unione Europea non ha mai voluto riconoscere e chiamare ai vari tavoli del negoziato di pace l’amministrazione autonoma dei curdi, preferendogli il ristabilimento delle relazioni con il regime di Assad. Innumerevoli sono in Italia le iniziative per la pace e i diritti umani delle associazioni raccolte intorno alla Rete Kurdistan. Un Ponte Per è l’unica ong italiana presente dal 2016 nel Nord Est della Siria e lavora con diversi partner della società civile siriana ed in particolare con la Mezzaluna Rossa Curdo Siriana la cui sezione italiana, che ha sede a Livorno, è molto attiva sul terreno umanitario.

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