Comiso è stata, in quei tanto bistrattati anni ‘80, il birillo rosso al centro del biliardo che era mondo: in questo piccolo paese della Sicilia si sono giocate le sorti dei due blocchi ideologico-politici in cui si divideva allora il pianeta, USA e URSS, Occidente e Oriente, democrazia e socialismo, libertà e uguaglianza. Che, in realtà, erano meno lontani di quanto pretendevano di essere: due potenze nucleari, in grado con i propri arsenali di armi nucleari di distruggere più volte il mondo, che si legittimavano a vicenda. Si chiamava equilibrio del terrore, o MAD-Mutual Assured Destruction, quello che teneva con il fiato sospeso l’umanità e, in modo particolare, noi, le giovani generazioni, che vedevano – come oggi i giovani di Fridays For Future – il proprio futuro minacciato da migliaia di missili con testata nucleare puntati gli uni contro gli altri. E il terreno di battaglia era l’Europa. Dove il Patto di Varsavia da un lato, schierando i nuovi missili di media portata SS-20, e la Nato dall’altro, che intendevano schierare i nuovi Pershing e Cruise, si confrontavano, rendendo più possibile un conflitto nucleare circoscritto.
Comiso era una delle basi europee in cui la Nato progettava di installare i Cruise. Contrariamente alla narrazione che è andata per la maggiore di essere gli anni del riflusso, disimpegno, ritorno nel privato, un enorme movimento di cittadini, sindacati, chiese, partiti, associazioni, scienziati, intellettuali si era messo in marcia nelle piazze d’Europa per protestare e cercare di impedire questo ulteriore gradino nella escalation nucleare. Era un movimento composito, trasversale anche alle ideologie che allora spaccavano il Paese e il mondo come una mela, che nasceva da un’istanza comune a tutte le persone, l’unico destino della razza umana che dopo Hiroshima accomunava popoli di tutta la Terra. Era, tuttavia, un movimento politico, forse il più politico a cui io abbia mai partecipato. Il che dimostra che la politica può essere elemento di unità e non di divisione, come invece si è ridotta ad essere oggi. In tutta Italia si costituivano e si riunivano spontaneamente i Comitati per la Pace e organizzavano incontri, manifestazioni, seminari sulla pace. Ci riunivamo nelle parrocchie come nei circoli Arci. Nei Consigli Comunali si discuteva e si approvavano delibere per dichiarare il territorio Comune denuclearizzato, appellandosi all’art.11 della Costituzione che proibisce all’Italia e alla sua politica estera di concepire la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Come molti giovani dell’epoca, io, allora diciottenne, ascoltavo le parole di padre Ernesto Balducci sulla pace e fui da lui coinvolto nella redazione di Testimonianze, la rivista fondata nel 1958 e che ancora oggi si pubblica, che fu uno dei punti di riferimento del Movimento per la Pace. Partecipavo all’attività del movimento a Firenze e in Italia, nonché al Coordinamento nazionale dei Comitati per la Pace, che allora si riuniva a Roma, nella sede de il Manifesto, in via Muzio Clementi. Fu in una di queste lunghe, fumose e però creative riunioni che fu decisa un’azione nonviolenta ai cancelli della base di Comiso al momento in cui sarebbero stati condotti lì i missili Cruise. Il tema della nonviolenza (che si scrive così, una sola parola, perché non è il contrario della violenza, bensì una cultura, un’idea, una pratica delle relazioni fra gli uomini e fra questi e il pianeta, un progetto di futuro, un ideale positivo, che non si definisce solo per contrasto ad un altro) fu il fulcro del dibattito di quegli anni e l’identità stessa di quel movimento. Non era un tema facile, anzi. Nella Sinistra non vi era su questo una riflessione radicata nella sua identità perché le sue radici affondate nella Resistenza si riverberavano nelle lotte di liberazione armata nei Paesi del centro e sud America a cui la SInistra si sentiva legata. Nell’esperienza sociale cattolica la non-violenza era ovviamente presente, ma tendeva a coniugarsi con una sorta di rinuncia alla lotta, confidando in una salvezza e un riscatto che non erano di questo mondo. Furono altre tradizioni culturali a portare questa cultura nel movimento e a diventare egemoni. Erano tradizioni minoritarie – l’ambientalismo, il cattolicesimo di sinistra, il pacifismo libertario, la cultura radicale – che però ebbero nel movimento una egemonia culturale e riuscirono a contaminare culture più strutturate e organizzate.
Per certi aspetti è anche la mia vicenda personale che da cattolico di sinistra mi trovai alla guida della Federazione Giovanile Comunista della Toscana, accanto a molti altri giovani appunto comunisti. Proprio attraverso il Movimento per la pace dei primi anni ‘80 assorbimmo culture nuove, diverse, che spesso entravano in contrasto con quelle della nostra origine, (cattolica e comunista), portandovi dentro innovazioni strutturali. La cultura del limite e dell’ambientalismo fu una di queste innovazioni che, tuttavia, si manifestò soprattutto dagli anni ‘90 in poi. Ma la nonviolenza e il pacifismo contaminarono le culture di sinistra e cattoliche agli inizi degli anni ‘80. E fu proprio Comiso il punto di contatto. Ricordo molto bene le settimane di preparazione delle manifestazioni ai cancelli di Comiso: le discussioni organizzative e logistiche, ma soprattutto quelle sul metodo di lotta da adottare, appunto quello nonviolento, e le infinite discussioni, seminari, workshop per approfondire il pensiero dei padri della nonviolenza (da Gandhi a Martin Luther King), il nuovo significato della nonviolenza nell’epoca del possibile conflitto nucleare fra USA e URSS e poi il training nonviolento nella conduzione delle assemblee, per arrivare a quello nella organizzazione della presenza ai cancelli di Comiso. Al di là della tecnica (che tuttavia fu utile e straniante tanto per la polizia in assetto da sommossa, quanto per i militanti dell’Autonomia: da entrambi fummo assaliti con i metodi violenti e a praticare metodi di resistenza nonviolenta furono le persone del Movimento di culture politiche assai lontane fra loro), la nonviolenza diventò il nostro modo di guardare al mondo e al pianeta.
Attraverso questo filtro culturale, assorbimmo l’ambientalismo, cioè un modo nonviolento di rapportarsi alla natura, qualcuno diceva al creato, altri all’ambiente. Sempre attraverso la cultura della nonviolenza concepimmo l’impegno politico durante il terribile decennio del terrorismo.
Comiso fu anche un’esperienza sociale per una generazione di giovani pacifisti che ci ha consentito di vedere in faccia la violenza e di mettere alla prova un impegno politico collettivo, che successivamente a quell’esperienza ciascuno di noi si è portato dentro le esperienze che in seguito avrebbe fatto. Penso a chi è andato a fare cooperazione nei paesi del Sud del mondo e all’impegno per la pace e la nonviolenza che ha caratterizzato le ong italiane anche rispetto a quelle del nord Europa. Ma anche chi ha continuato il proprio impegno politico nell’amministrazione di enti locali ha filtrato questa esperienza pacifista dentro quella sua nuova vita. E, infine, non credo che si possa pensare al movimento per una più equa globalizzazione, che inizia a Seattle nel 1999 e si sviluppa nei diversi Social Forum fino a quello europeo di Firenze del 2002, senza la connessione diretta e priva di rottura di continuità con il Movimento per la Pace degli anni ‘80 e quei giorni gloriosi a Comiso.
Va infine ricordato che quel Movimento ha vinto, dopo che lo stesso movimento si era ormai già reimmerso nel flusso sotterraneo della storia come un fiume carsico. Il trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) siglato a Washington l’8 dicembre 1987 fra l’URSS di Michail Gorbachev e gli Stati Uniti di Ronald Reagan, a seguito del vertice di Reykjavík (11-12 ottobre 1986), è la migliore dimostrazione di quanto quel movimento avesse ragione: saremmo stati tutti più sicuri senza nuovi missili nucleari e non sotto gli ombrelli atomici delle due superpotenze. A seguito di quella storica firma ho ripensato tante volte alla polvere nelle giornate di protesta ai cancelli di Comiso, all’ironia di chi ci chiamava illusi utopisti o utili idioti al servizio dell’URSS. Nessuno, o quasi, ha mai riconosciuto qualche merito a quel movimento, tanto meno quelli che in quei frangenti sostenevano l’installazione dei nuovi missili come un’esigenza dettata dalla ragion di Stato o, peggio, da istanze di sicurezza per evitare che i cosacchi sovietici venissero ad abbeverare i propri cavalli nella Fontana di Trevi. Ma io non posso fare a meno di pensare che quel Movimento per la Pace ha rimesso in moto la Storia in un momento in cui tutto era bloccato sotto una pesante cappa di piombo. Rivedo davanti a me tante delle mie compagne e dei miei compagni che hanno animato quel Movimento e che mi sono stati accanto ai cancelli di Comiso come nelle marce per la pace da Perugia ad Assisi, nei sit-in davanti alle ambasciate di USA e URSS, nelle infinite riunioni nei piccoli Comitati per la Pace di ogni piccolo Paese della penisola. E penso che non è stato tutto inutile. Anzi. Noi ci siamo caricati sulla schiena il peso e la responsabilità di riaprire una possibilità alla pace, alla speranza, quando nessuno voleva farlo.
E risuonano in me le parole che padre Ernesto Balducci pronunciò nella sua relazione di apertura del primo dei grandi convegni di Testimonianze, “Se vuoi la pace, prepara la pace”, al Palazzo dei Congressi di Firenze nel 1981: “Io sono tra coloro che nelle nuove manifestazioni pacifiste vedono farsi strada una richiesta di cambiamento, non dico della politica, ma dei termini fondamentali della presenza dell’uomo alla storia e al mondo, e cioè la richiesta del passaggio da una civiltà che aveva assunto la competizione come molla del suo stesso sviluppo ad una civiltà che, rimettendo in questione l’ideologia del progresso che sta alla base della sua buona coscienza, ponga la sua radice nell’altra valenza dell’uomo, rimasta fino ad oggi marginale, consolatoria e comunque inefficace: quella dell’apertura dell’uomo all’uomo come condizione del proprio essere, della collaborazione come condizione del proprio sviluppo, della solidarietà con l’intera specie come condizione del suo essere persona”.
Ecco, di questo si trattava a Comiso in quelle estati torride. Le tre verità di Hiroshima illustrate da Ernesto Balducci nel 1981, si condensavano nell’esigenza di dare una risposta non solo a quella scelta di riarmo nucleare, ma in quella ben più sfidante e ancora oggi aperta di riconoscere nell’Altro noi stessi e condividere con esso una strada che ci salvi tutti insieme. Non sentitevi dunque, miei compagni e compagne di Comiso, dei tristi reduci sconfitti o degli inguaribili nostalgici di un tempo passato: siamo ancora in piedi e la battaglia è ancora tutta da combattere.
A Comiso oggi i missili nucleari non ci sono più, quindi si potevano battere; ma essi sono ovunque intorno a noi, nel razzismo contro i “diversi” che rialza la testa, nelle guerre che infiammano il nostro stanco mondo, nelle fabbriche che costruiscono ancora armi, in uno sviluppo distorto che sta uccidendo quest’unico pianeta sul quale viviamo, nelle disuguaglianze che concentrano ricchezze ed espandono nuove povertà. Allora, resistete, resistiamo: parliamo, discutiamo, scegliamo la parte giusta dove stare, quella degli “ultimi” e della nonviolenza attiva… distendiamoci davanti ai nuovi cancelli delle altre Comiso del mondo, impediamo il passaggio delle armi (come hanno fatto i camalli di Genova che si sono rifiutati di caricare casse di armi su una nave destinata in Arabia Saudita), abbattiamo i fili spinati (anche quelli che ci sono dentro la testa delle persone). Noi non lo vediamo perché come diceva Bloch nel suo letto di morte, ai piedi del faro non c’è luce; ma sta a noi tenere vivo il fuoco di una nuova speranza.
Postfazione “Quando partimmo per la pace” di Elena Corna ed Ester Muzio (I Libri di Mompracem)