Elio Pagani: l’obiezione professionale alla produzione militare

Il pensiero scientifico laico vede la vita ed in particolare la vita umana come manifestazione del principio  cibernetico, principio che si oppone a quello entropico: ovvero un processo creativo di un ordine via via più  complesso che si contrappone a quello di caos tendenziale. Il pensiero cristiano vede la vita ed in  particolare la vita umana quali ultime sequenze dell’atto creativo di Dio, e il completamento in Cristo di  questa azione dona piena dignità all’uomo quale figlio di Dio, “fatto a sua immagine e somiglianza”. La vita e la sua dignità vanno dunque tutelate. Il riconoscimento ormai generale della “Dichiarazione universale dei  diritti umani” indica, almeno formalmente, il convergere dei molti approcci sull’inscindibilità del binomio vita  e dignità. 

L’antropologia ha classificato gli stadi della civiltà umana come manifestazioni dell’homo faber e poi  dell’homo sapiens, studiando i prodotti delle sue mani e del suo ingegno, collocando il suo lavoro in  posizione centrale. Nel pensiero laico il lavoro, quando liberato dal suo carattere di necessario, diviene  azione creatrice, che rende pieno il senso di essere uomo. Nel pensiero cristiano il lavoro viene visto come una delle modalità con le quali l’uomo, capace di contemplare il creato e di dare il nome a tutte le sue  manifestazioni, diviene compartecipe dell’azione creativa divina nell’edificazione del suo regno. Credenti e  non credenti si interrogano sempre più sul rapporto tra etica e scienza, considerando l’evolvere rapido  delle scoperte, delle tecnologie e delle loro conseguenze sulla vita umana, sull’ecosistema e sulla società. 

Lavoro e dignità umana dunque si compenetrano. Anche la nostra Costituzione riconosce  implicitamente questo legame nell’articolo 3, e all’art. 4, dopo aver definito il lavoro un diritto, indica il  dovere di ciascuno di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività che concorra al  progresso materiale o spirituale della società. All’art. 41 si afferma inoltre come l’iniziativa economica  privata non possa svolgersi in modo da recar danno alla dignità umana. 

Credo sia da questi elementi che bisogna partire per affrontare il tema della obiezione di coscienza alla  produzione bellica, la cosiddetta “obiezione professionale”. Non abbiamo lo spazio per poter essere  esaustivi poiché bisognerebbe considerare molti elementi: la definizione del concetto, le manifestazioni con  cui è stata praticata, i motivi e gli obiettivi di chi l’ha praticata e le sue conseguenze, si dovrebbero  considerare i tempi storici in cui si è manifestata e quale forma potrebbe assumere oggi. 

L’obiezione professionale consiste nel rifiutarsi di svolgere, o di continuare a svolgere, un’attività contraria  alle proprie convinzioni di coscienza. E’ evidente che tali convinzioni (di matrice filosofica o religiosa) si radicano nel principio della non partecipazione ad attività che vengono ritenute eticamente riprovevoli,  perché contrarie alla vita ed alla dignità. Le motivazioni che inducono il lavoratore ad attuare questo tipo di  protesta, che si può definire “non collaborazione al male”, possono essere diverse: il rifiuto di impiegarsi  presso una ditta che svolge un’attività contraria alla propria coscienza; il cambiamento di attività produttiva  dell’impresa; l’errata conoscenza, da parte del lavoratore, del settore merceologico in cui opera l’impresa; il  ravvedimento del lavoratore che ha sempre conosciuto le finalità produttive per cui era stato a suo tempo  assunto. 

E’ implicito nel concetto di obiezione il fatto che, quando questa è in violazione di una legge, chi la  pratica assume in prima persona le conseguenze civili e penali che derivano dal praticarla. Le  conseguenze a cui va incontro l’obiettore professionale sono ovviamente diverse a seconda del caso. Mentre  nel primo caso il lavoratore cercherà altrove un’occupazione, nelle altre ipotesi il lavoratore, essendo già  inserito nel contesto aziendale, il più delle volte sarà licenziato a meno di norme che gli riconoscano questo  diritto. In alcuni casi l’obiezione è stata anche rivendicazione di tale diritto. 

L’obiezione di coscienza alla produzione bellica può riguardare: la produzione bellica, intesa come il  rifiuto di lavorare in imprese che producono armi di qualunque genere, o servizi strettamente correlati; la  produzione di energia nucleare, anche per uso pacifico (perché ritenuta connaturata al ciclo bellico), con il conseguente rifiuto del lavoratore di operare in imprese impegnate nella costruzione di reattori nucleari.

Naturalmente, l’obiezione professionale può riguardare ed ha interessato altri settori, in particolare in tema di tutela dell’ambiente e del nascituro

In tema di aborto abbiamo l’unico tipo di obiezione professionale riconosciuta in Italia, è previsto  dalla legge 194 del 1978, la stessa legge che introduce il diritto, a certe condizioni, all’interruzione  volontaria di gravidanza. Unico vero limite al diritto di obiezione, in questo caso, è la circostanza nella quale  l’aborto si rivelerebbe indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo. Medici e  paramedici obiettori possono esercitare l’obiezione conservando il proprio lavoro ed i diritti connessi. 

L’obiezione al servizio militare riconosciuta con la legge 772 del 1972, nonostante alcune significative  limitazioni, aveva già fatto fare un notevole passo in avanti al sistema giuridico italiano e troverà  compiutezza nella legge 230 del 1998, che riconosce l’obiezione al servizio militare come diritto  soggettivo recependo in ciò la risoluzione del Parlamento Europeo del gennaio 1994. Il  riconoscimento di questo tipo di obiezione certamente sostenne moralmente anche quei lavoratori che  pensavano negli anni ’70 ed ’80 di praticare l’obiezione alla produzione militare

Considerando il fenomeno solo in Italia, in quegli anni furono almeno una quindicina i lavoratori  dell’industria bellica che si dichiararono obiettori, o meglio di cui i giornali parlarono, ma naturalmente si può immaginare che in quegli anni, ma anche nella storia precedente e successiva, molti lavoratori, senza  dichiarare pubblicamente la loro intenzione fecero obiezione preventiva o lasciarono la loro attività  cambiando settore. A questi sono da aggiungere le dichiarazioni di obiezione preventiva di migliaia di scienziati che si opposero nella prima metà degli anni ’80 alla partecipazione al progetto  reaganiano di “guerre stellari” (SDI)

C’è da considerare il clima di allora che favoriva la ricerca della trasparenza sulla produzione ed il commercio  di armi e il loro legame con le guerre in corso, la violazione dei diritti umani ed il sostegno ai regimi  dittatoriali e coloniali e, naturalmente, sulla correlazione tra spese militari, corsa agli armamenti, guerra  fredda e persistenza di larghissime fasce di povertà e sottosviluppo. Negli ambienti di lavoro già all’inizio  degli anni ’70 il sindacato, in particolare la FLM, aveva intrapreso un’azione informativa ed organizzativa  volta a svelare agli occhi dei lavoratori del settore l’intero ciclo di produzione-circolazione-“consumo” dei  sistemi d’arma richiamandoli ad una coerenza internazionalista nei confronti di lavoratori e popoli che  subivano gli effetti di quel ciclo. 

Assieme ad associazioni cattoliche ed internazionaliste supportarono quei parlamentari che volevano  introdurre una legge sul controllo e la limitazione dell’export di armi. La Legge 185 che verrà  approvata solo nel 1990, è frutto di queste iniziative e di quelle che negli anni ’80 furono del cartello di  associazioni cattoliche e riviste missionarie Contro i mercanti di morte”. Era l’epoca in cui ancora talune esportazioni facevano scandalo e Riviste come Nigrizia o Missione Oggi avevano fatto della questione una bandiera. Era il tempo in cui Spadolini non sopportò di essere definito  “piazzista di armi” da Padre Zanotelli, mentre il premier di oggi si autodefinisce senza vergogna  “commesso viaggiatore” delle aziende militari. 

La conoscenza dell’intero ciclo è fondamentale per la presa di coscienza, ciò è dimostrato ad es. dalle  dichiarazioni dell’operaia Franca Faita che lottò con le sue compagne per la riconversione della Valsella. Nel 1997, quando il premio Nobel per la pace viene assegnato al movimento internazionale che  ha portato avanti la Campagna per la messa al bando delle mine e a Stoccolma viene invitata anche lei, in una lettera per spiegare le ragioni che la vedono costretta a declinare la proposta, visto il delicatissimo  momento vissuto dalla Valsella scrive: «All’inizio, e per tanti anni di lavoro, per me le mine erano dei semplici pezzi di plastica da mettere insieme. Da quando la campagna mi ha fatto capire che quei pezzi di plastica  non erano così inermi, ma erano mine, la mia coscienza si è messa in movimento». La FLM spingeva anche i consigli di fabbrica del settore ad elaborare richieste di diversificazione e  riconversione al civile da inserire nelle piattaforme aziendali per annullare o diminuire la dipendenza  dalla produzione bellica, considerata anche una risposta inadeguata alle crisi aziendali ed economiche, è da  segnalare su questo argomento quella che è una tra le piattaforme aziendali più importanti: quella  presentata da Fim-Fiom-Uilm in Aermacchi (velivoli militari) nel 1988 in cui si chiede di esercitare un  controllo sulle esportazioni ed investimenti nel civile allora inesistenti, la piattaforma fu approvata da oltre  l’80% degli aventi diritto al voto. All’inizio degli anni ‘80 il vasto movimento contro gli euromissili fece  salire l’attenzione sul ciclo del nucleare e della militarizzazione dello spazio.

In questo contesto si praticarono le obiezioni alla produzione bellica, esercitate da singoli ma anche a livello  collettivo, conclusesi per gli obiettori con il licenziamento o le dimissioni oppure con il trasferimento ad  attività civili o con accordi che superavano il problema. 

Il primo caso clamoroso di obiezione professionale collettivo risale al 1970, e venne attuato per  iniziativa degli 805 dipendenti delle Officine Moncenisio di Condove (To), attiva nel settore carri  ferroviari e macchine di maglieria. Questi lavoratori approvarono all’unanimità una mozione con la quale si  dichiararono indisponibili a prestare la propria attività nel caso in cui l’azienda accettasse nuove commesse di produzione di materiale bellico. Gli operai rifiutavano così la possibile riconversione della fabbrica in industria bellica. La mozione diceva: “I lavoratori delle Officine Moncenisio, considerando che il problema della pace e  del disarmo li chiama in causa come lavoratori coscienti e responsabili e che la pace è supremo interesse e  massimo bene del genere umano; preoccupati dei conflitti armati che tuttora dilacerano il mondo e il corpo  dell’umanità, e dello spaventoso aumento del potenziale distruttivo in mano agli eserciti (…) diffidano la  Direzione della loro Officina dall’assumere commesse in armi, proiettili, siluri o di altro materiale destinato  alla preparazione o all’esercizio della violenza armata di cui non possono o non vogliono farsi complici.  Avvertono tempestivamente e lealmente le Autorità Aziendali di non essere pertanto in nessun caso disposti  a lavorare, trasportare e collaudare i suddetti materiali bellici. (…) Sostengono vigorosamente che non basta  parlare di pace in modo astratto e infecondo, né partecipare ad esteriori ed accademiche manifestazioni di  essa per poi preparare la guerra, con ipocrita conseguenza, accettando sul posto di lavoro di fabbricare le  armi del massacro; poiché coloro che oggi le fabbricano, hanno perso per sempre il diritto di rifiutarsi di  impugnarle domani per usarle contro i loro fratelli, né potranno in alcun modo scongiurare il pericolo che  vengano usate da altri per scopi criminosi. Invitano caldamente i lavoratori italiani e di tutto il mondo a  seguire il loro esempio di coerenti e attivi costruttori di pace”. 

Gli episodi che seguono mostrano un’altra tipologia di obiezioni collettive. Nel 1972/73, quando i  portuali di Genova e Livorno si rifiutano per alcune settimane di imbarcare armi destinate alla  repressione della guerriglia nei Paesi a regime dittatoriale del Terzo Mondo. 

Nel 1986 un gruppo di cassaintegrati dell’Elettronica di Roma (contromisure elettroniche  aereonavali) presenta un Esposto alla magistratura su un traffico di sistemi militari con il Sudafrica, allora  dominato dal sistema dell’apartheid, chiedono tra l’altro che il sindacato condivida l’iniziativa e sostenga  norme per il diritto all’obiezione professionale. 

Nell’ottobre del 1987 un gruppo di lavoratori della Breda Elettromeccanica Ansaldo di Milano  bloccano per alcune settimane la spedizione in Iran (in guerra con l’Iraq) di un gruppo di generatori di  vapore per centrali nucleari, gli operai chiedono la rinuncia alla spedizione, la riconversione della produzione  nel settore delle energie rinnovabili e invitano il governo ad agire per un disarmo integrale. Nel 1990 un gruppo di lavoratori di Aermacchi di Venegono (Va) di fronte alla crisi dell’azienda  determinata dagli accordi per il disarmo convenzionale in Europa e dalla decisione governativa di ridurre il  numero di Cacciabombardieri acquistati, obiettando contro chi voleva rivendicare maggiori spese militari a  garanzia della produzione dell’ultimo lotto di caccia, proposero di spingere verso una accelerazione della  riconversione. Questa loro azione pur non potendosi considerare obiezione diretta ebbe conseguenze  analoghe: la maggior parte di loro fu messa in CIGS a zero ore. Nella nuova condizione fondarono il  Comitato di Cassaintegrati Aermacchi per la Pace ed il Diritto al Lavoro che continuò la lotta per il  civile ottenendo tra l’altro una legge regionale per la riconversione dell’industria bellica lombarda

Tra i casi di obiezione individuale alla produzione bellica ricordiamo i seguenti. L’ingegner Secchieri si  dimette nel 1980 dall’azienda presso cui lavorava in seguito all’assunzione, da parte dell’impresa, di  commesse militari. La società gli intenta causa, ma il giudice dà ragione a Secchieri. L’operaio Maurizio  Saggioro che, nell’estate del 1981, viene licenziato dalla fonderia MPR di Bollate (Mi) dove lavorava  come attrezzista. Quali motivazioni del licenziamento, la ditta adduce, l’inadempienza contrattuale (Saggioro  in due occasioni si rifiuta di costruire materiale bellico) e il boicottaggio (Saggioro concede interviste alla  stampa, considerate dall’azienda denigratorie). In quel periodo Tury Vaccaro studente-operaio presso  la Fiat (To) accortosi che il suo lavoro doveva servire ad assemblare componenti di un sistema di trasporto  militare, ha preferito il licenziamento alla complicità nella predisposizione di strumenti di morte. Nel 1981 quando la SOPREN viene smantellata e i dipendenti ridistribuiti nelle varie consociate del gruppo,  l’ingegnere Maurizio Rossini chiede di essere assegnato a ricerche sulle energie alternative contestando  l’inscindibile legame tra la tecnologia nucleare “dura, accentrata e inquinante” e gli “arsenali nucleari  militari”. L’azienda non accoglie la richiesta e lo destina alla NIRA di Genova per progettare un contenitore  per il trasporto di materiale radioattivo. Poiché rifiuta, Rossini viene licenziato “per grave e notevole  impedimento degli obblighi di legge e contrattuali”. Nel 1983, l’operaio Gianluigi Previtali, dipendente 

dell’Aeronautica Macchi (Va) si dimette dichiarandosi obiettore di coscienza. Nella primavera del 1983 si  dimette dalla De Pretto Escher Wiess di Schio, Michele Fuser di Vicenza, in quanto l’azienda aveva  assunto, per conto della Oto Melara di La Spezia, una commessa riguardante basamenti per cannoni di  precisione. Tullio Braga, si dimette nel 1984 dalla SEPA (To) che opera anche nel settore militare,  dichiarandosi obiettore di coscienza, dando notevole pubblicità al suo gesto all’interno della fabbrica. La  Direzione lo invita ad andarsene senza ultimare il periodo di preavviso previsto dal CCNL pagandogli per  intero il trattamento di fine rapporto. Nel 1985 il tecnico Antonio Russo della Partenavia di Napoli chiede ed ottiene dopo un percorso accidentato il trasferimento ad attività civili grazie ad un accordo  sindacale. Nel 1988 Elio Pagani denuncia, attraverso un’intervista a Famiglia Cristiana, la violazione da  parte di Aermacchi, azienda presso cui lavora come tecnico, degli embarghi sul materiale militare vigenti  nei confronti del Sudafrica. Qualche mese più tardi, nel 1989 dichiarandosi pubblicamente obiettore  professionale chiede ed ottiene il trasferimento “di fatto” alla neonata produzione civile. A fine 1990,  nonostante il buon andamento della produzione civile viene espulso in CIGS a zero ore. Nell’intento di  riuscire ad ottenere un accordo che faccia “scuola”, nelle sue richieste egli ricorda le importanti affermazioni  contenute nella Sentenza Saggioro del 12.01.83: il preciso obbligo sul piano della struttura (diversificata) del rapporto di lavoro di utilizzare il dipendente obiettore in modo da consentire lo svolgimento dell’attività  lavorativa, ed insieme di non arrecare pregiudizio alla sua dignità e al suo patrimonio di convinzioni morali,  come vuole l’articolo 2087 del Codice Civile, che impone all’imprenditore l’obbligo di attivare  “nell’esercizio dell’impresa, le misure (…) necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei  prestatori di lavoro”. 

Questo è un principio fondamentale perché imporrebbe di mettere fine alla sofferenza morale, psichica del  lavoratore, che per empatia, compresa la propria responsabilità nel ciclo bellico, vorrebbe solidarizzare con le vittime ma è vincolato da un lavoro che gli dà da vivere. 

Spesso dunque l’obiettore professionale non agisce solo per rispettare il dettato della propria coscienza ma vuole anche determinare le condizioni per l’affermarsi del diritto alla obiezione stessa e per trasformare le condizioni di lavoro in cui sono costretti anche i suoi compagni, nonché, suscitando solidarietà attorno al suo gesto chiama tutti ad assumersi il problema di una trasformazione socioeconomica a partire dalla riconversione al civile e dal ribaltamento dell’aforisma “si vis pacem para bellum”. Egli chiama tutti a costruire la pace attraverso costrutti di pace. 

L’obiezione praticata da Saggioro porta i suoi sostenitori a creare due “gruppi di adozione di lavoratori che obiettano alla produzione bellica” con lo scopo di offrire, all’obiettore, ciò di cui ha bisogno al momento in cui lascia o perde il lavoro: stipendio, solidarietà e collegamenti. A meta degli anni ’80 anche Beati i Costruttori di Pace lanciano un’idea analoga e nel 1987, promossa da quattro parrocchie fiorentine, con l’appoggio dell’arcivescovo di Firenze – Cardinale Silvano Piovanelli – creano un Fondo di Solidarietà per aiutare “chi si rifiuta di produrre materiale bellico affrontando per la sua scelta cristiana coerente e coraggiosa quelle difficoltà certamente serie che, com’è inevitabile, si accompagnano alla rinuncia di un posto di lavoro”. 

Come dicevamo l’azione principale del sindacato sul problema della produzione militare è stata  l’organizzazione di coordinamenti di delegati del settore allo scopo di ricostruire l’intero ciclo della  produzione-circolazione-consumo bellico, spingere per la presentazione di piattaforme di politica industriale  settoriale e aziendali con richieste di diversificazione e riconversione. Queste azioni non sono state lineari e  di facile attuazione, spesso si registrarono colpi di arresto ed involuzioni dominate dalla necessità di garantire nel breve termine i posti di lavoro ed interessi cristallizzati. Relativamente all’obiezione professionale nel  sindacato ci fu un minimo di dibattito che portò per es. ad un O.d.G. allegato alla piattaforma FLM per  il Contratto Nazionale del 1982 intitolato “Sul diritto all’obiezione di coscienza alla produzione bellica” in  cui si diceva: “(…) Impegna la categoria e le strutture a sentirsi vincolate ad intervenire regolamentando a  livello di contrattazione articolata le eventuali situazioni che si determinassero prima dell’apparire delle  norme legislative (…) invocate (…) a tutela dell’obiettore professionale”. 

A livello aziendale il sindacato è in qualche caso intervenuto per gestire con accordi specifici la tutela  dell’obiettore, ad es.: in Partenavia (Na), in Agusta (Va), ma il caso più significativo si ebbe nel 1987 con l’accordo al CISE (Centro Informazioni, Studi, Esperienza) di Milano, un laboratorio di ricerca con circa 600 dipendenti controllato dall’ENEL, qui, il diritto all’obiezione di coscienza professionale è  stato per la prima volta riconosciuto in Italia. L’azienda accettò la richiesta avanzata dal Consiglio di  Fabbrica e, nell’eventualità di acquisizione di commesse militari, avrebbe accettato l’indisponibilità del  lavoratore a svolgere un’attività in contrasto con i suoi ideali pacifisti. Nel contratto integrativo aziendale 

accanto alla disponibilità aziendale ad accettare un’obiezione avanzata dal lavoratore, vi è, per il lavoratore  che la eserciti, l’eventuale disponibilità ad essere riconvertito verso altri settori di attività. 

Di converso negli anni ’80 e ’90 alcune aziende a produzione militare introducono nei colloqui di  assunzione la domanda se vi siano problemi di coscienza a lavorare per il bellico, ciò non per violare il  divieto di indagine sulle opinioni dei futuri lavoratori, sancito dalla Legge 300 del 1970, ma per  favorire una decisione più matura da parte dell’aspirante e/o deciderne adeguatamente il suo collocamento.  Non è da escludere d’altro canto, che alcuni imprenditori, senza pubblicizzare la cosa, abbiano deciso di  non assumere commesse militari

Sollecitati dal caso Saggioro, i radicali presentano nel 1982, con Cicciomessere, una proposta di legge che, oltre a sancire il diritto del lavoratore all’obiezione di coscienza, diritto che può essere espresso  in qualsiasi momento della sua carriera lavorativa, obbliga il datore di lavoro ad utilizzare il lavoratore che si  

dichiari obiettore, in attività non connesse alla produzione militare. Nel caso in cui l’azienda operi solo nel  settore militare, l’obiettore può recedere dal contratto per giusta causa. In tal caso gli sarà concessa  l’integrazione salariale ordinaria, con la possibilità di reintegro nel caso in cui l’azienda realizzi riconversioni  parziali o totali dell’attività produttiva, dal settore militare a quello civile. Una seconda proposta,  presentata da Democrazia Proletaria nel 1887, inserisce le norme di tutela dell’obiettore professionale  all’interno di un complesso di norme volte al controllo e la limitazione dell’export di armi e per la promozione  della riconversione. Qui l’obiettore quando non potesse essere trasferito ad attività civili all’interno  dell’azienda troverebbe assistenza nella ricerca di una occupazione all’esterno di essa. Entrambe non sono  mai state approvata dal Parlamento italiano. 

Nel mondo cattolico personalità di spicco hanno invitato se non a praticare l’obiezione professionale  almeno a sostenerla, questo è ciò che si deduce leggendo ad esempio la poesia dedicata ad un “Operaio di  una fabbrica di armi” scritta da Carol Wojtyla molti anni prima di diventare Papa o la “Salmodia contro le  armi (un appello a tutti gli operai)” scritta da Padre Davide Maria Turoldo nel 1972 o i documenti di Pax  Christi e di Mons. Luigi Bettazzi come quello del 1980 in occasione di una delle Marce per la Pace di fine  anno dice “occorre affermare la libertà di ogni persona di poter scegliere che cosa produrre, senza subire il  ricatto occupazionale; la libertà di lavorare per la vita e non per la morte”. Don Enrico Chiavacci professore di Teologia morale così si esprimeva: “di fronte alla ricerca o alla produzione di armi, in quanto  essa rappresenta una cooperazione diretta al male volta alla distruzione dell’uomo, il rifiuto del cristiano deve essere netto”. Facendo un confronto egli addirittura riteneva che “… la cooperazione al male del medico che  firma in consultorio il certificato di autorizzazione all’aborto è molto, molto meno pesante di chi costruisce  armi … ”. Anche i moralisti Don Giuseppe Mattai e Luigi Lorenzetti considerando il rapporto tra etica e  professioni sostengono l’importanza della responsabilità personale e del rifiuto alla cooperazione col male e  della obiezione professionale. In particolare Mattai ritiene “si debba superare quella deontologia  professionale che sottolinea il primato della “rettitudine d’intenzione” e non mette in discussione la  professione nel suo statuto e nelle sue conseguenze sociali. Oggi invece l’etica professionale invita a  prendere in considerazione la professione esercitata e i suoi esiti nei confronti delle persone e delle  comunità. La problematica di questo nuovo tipo di deontologia si applica a tutti i livelli, seppure certo  considerando il diverso grado di responsabilità, dallo scienziato al tecnico-esecutore fino all’operaio”. Anche  Padre Ernesto Balducci nel suo spingerci a considerarci uomini planetari considerava centrale l’esercizio  della responsabilità individuale. Più volte il comboniano Padre Alessandro Zanotelli ha richiamato alla  necessità di obiettare anche sui luoghi di lavoro per non essere parte di quella struttura di peccato che è la  produzione bellica, e come non ricordare la struggente lettera del 1986 “Al fratello che lavora in una fabbrica di armi” di Mons. Tonino Bello

Anche circa la necessità di rendere trasparente l’intero ciclo di produzione-circolazione-consumo di armi ed  aumentare la consapevolezza di quanto la guerra sia pratica atroce e disumana e della necessità di  superarla, i documenti ufficiali della Chiesa sono venuti in aiuto, dalla Pacem in Terris di Papa Giovanni  XXIII (1963), alla Populorum Progressio di Papa Paolo VI (1967). Nell’enciclica Sollicitudo Rei  Socialis di Papa Giovanni Paolo II (1987) si legge: “Se la produzione delle armi è un grave disordine che regna nel mondo odierno rispetto alle vere necessità degli uomini e all’impiego dei mezzi adatti a soddisfarle, non lo è meno il commercio delle stesse armi. Anzi, a proposito di questo, è necessario aggiungere che il  giudizio morale è ancora più severo (…) Se a tutto questo si aggiunge il pericolo tremendo, universalmente  conosciuto, rappresentato dalle armi atomiche accumulate fino all’incredibile, la conclusione logica appare  questa: il panorama del mondo odierno, compreso quello economico, anziché rivelare preoccupazione per un

vero sviluppo che conduca tutti verso una vita «più umana» (…), sembra destinato ad avviarci più  rapidamente verso la morte”. 

E’ con questa lettura della realtà che si spiega l’invito di Giovanni Paolo II a “disertare i laboratori e le  officine della morte”, nel suo discorso alla II Sessione speciale delle Nazioni Unite per il disarmo, il 7 giugno  1982, concetto ripetuto nel Discorso all’Accademia delle Scienze, ripreso dal “L’Osservatore Romano” del 13  novembre 1983, dove non esiterà ad elogiare i “profeti disarmati” e a invitare nuovamente gli scienziati  compiere una doverosa scelta nel campo della ricerca che cooperi all’edificio della pace. 

Già eminenti scienziati che avevano collaborato in un modo o nell’altro alla realizzazione dell’arma nucleare  avevano dopo Hiroshima e Nagasaki scelto di contestarne duramente la legittimità, contro il pensiero di  Enrico Fermi “Lasciateci in pace con i vostri rimorsi di coscienza. È una fisica così bella” e di altri come lui  che rifiutavano di ammettere di avere responsabilità imputandole tutte ai politici e ai militari che ne  decidevano il loro uso. Nacquero associazioni di scienziati “pacifisti” come l’internazionale “Pugwash”,  fondata tra gli altri da Albert Einstein, la “Union of Concerned Scientists” americana, l’Istituto di  Ricerche sulla Pace dell’Accademia delle Scienze dell’URSS l’analoga istituzione (il SIPRI)  dell’Accademia delle Scienze Svedese, l’Unione degli Scienziati per il Disarmo (USPID) italiana, il gruppo di  ricercatori pacifisti della Commision pour l’Energie Atomique (CEA) francese. Così si esprimeva un  appartenente al movimento Survivre, Victor Paschkis: “Il singolo scienziato è responsabile  personalmente delle implicazioni sociali del suo lavoro che è in grado di prevedere. Se per ragioni di  coscienza egli non è d’accordo con la corsa agli armamenti, è suo obbligo morale non collaborare ad essa  (…). Le democrazie sono pronte a sostenere che la disobbedienza al governo nei paesi autoritari è una virtù. La stessa concezione, naturalmente, sta alla base degli atti d’accusa del processo di Norimberga. Ma nei  paesi democratici si ritiene che l’obbedienza al governo legalmente costituito è essenziale. Il diritto della  maggioranza di imporre determinate azioni ai singoli individui quando queste azioni sono contrarie alla loro  coscienza può portare a sopraffazioni come quelle che furono commesse nella Germania nazista in nome  della ricerca scientifica. E’ chiaro che bisogna porre dei limiti, e per il pacifista non ci può essere alcun limite  che riduca l’assoluta libertà di coscienza. Tale libertà include il diritto di scegliere il proprio lavoro in modo  che gli scopi che esso si prefigge siano accettabili alla coscienza. Per lo scienziato pacifista ciò è ovvio: egli si sente responsabile per le conseguenze sociali delle sue azioni e delle sue attività, e non può delegare la  responsabilità al suo datore di lavoro o allo stato.” 

Nella prima metà degli anni ‘80 fece scalpore l’azione compatta di decine di migliaia di scienziati di tutto il mondo che rifiutarono con una dichiarazione di obiezione preventiva l’utilizzo dei fondi della  Strategic Defense Initiative di Reagan, meglio nota come “Guerre Stellari”: questo movimento fu un  elemento non secondario nel processo che portò al sostanziale fallimento della SDI. Solo in Italia furono  quasi 9000

Ora lo scenario geopolitico è radicalmente cambiato, dopo i primi veri trattati per il disarmo  convenzionale e nucleare in Europa, la caduta del muro di Berlino e l’implosione dell’URSS, quando una  nuova strada per consolidare quello che Papisca ed altri giuristi chiamano “Diritto alla Pace per la Pace”  sembrava aperta, la gestione dei conflitti prima con l’Iraq, poi con la ex Jugoslavia, e, dopo l’11 settembre  2001, l’attacco all’Afghanistan ed ancora all’Iraq, i paesi industrializzati, anche piegando l’ONU a rincorrerli e  a giustificare le loro pratiche, hanno reintrodotto il “diritto all’uso della guerra” ovunque i loro  interessi ed il loro livello di vita fossero messi in discussione. Così la guerra è stata spiegata come mezzo per  ripristinare il diritto internazionale, dispiegare azioni umanitarie, sconfiggere il terrorismo, esportare la  democrazia. Si è passati dalla “prevenzione della guerra” alla “guerra preventiva”, dal “mai più la guerra” alla guerra “infinita”. Definita “operazione di polizia internazionale” spesso la guerra è stata combattuta da  “vigilantes” globali degli interessi del Nord del mondo. Tutto ciò naturalmente si è accompagnato già dal  1994 ad un aumento stratosferico della spesa e della produzione militare. 

Ma per fare ciò i complessi politico-militar-industriali-scientifici hanno dovuto sviluppare imponenti azioni di  disinformazione per riuscire a far digerire la guerra ai loro popoli ormai ad essa piuttosto refrattari. Ecco  allora discriminare tra dittatori, evocare “regni del male”, mostrare improbabili “pistole fumanti”, evocare  “guerre di civiltà” o di “religione” inventare concetti opinabili come “armi intelligenti”, “interventi chirurgici”,  “danni collaterali”, spacciare come “invisibili” nuovi sistemi d’arma, a seconda che si dovesse giustificare la  guerra, le morti di civili innocenti, suggerire l’invulnerabilità dei propri soldati. Così le azioni belliche sono  diventate il “lavoro dei nostri ragazzi” e la guerra è diventata “missione di pace”. 

Siamo daccapo non si ha più la consapevolezza dell’intero ciclo di produzione-circolazione-consumo bellico,  occorre ricostruirla. In Italia, per rimanere in tema di obiezione scientifica, ci ha provato dal 1999 il 

Comitato scienziate e scienziati contro la guerra”, ma operare questo smascheramento è compito  di ciascuno di noi, ripartendo dall’art.11 della nostra Costituzione “L’Italia ripudia la guerra come  strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali  (…)”. 

Ci sono stati nuovi casi di obiezione di recente? Ci possono dare nuove indicazioni? Nel 2003, Flavia (che non vuole divulgare il suo cognome), ingegnere aerospaziale, rifiuta di  contribuire, attraverso la ricerca presso l’università La Sapienza di Roma, a costruire missili, sistemi di  puntamento per missili o satelliti e accetta di svolgere lavori più umili, lavora in una vineria e fa la baby  sitter, indicandoci come il sistema di ricerca e produzione militare “contagi” sempre di più le università e  quali sono i nuovi spazi per praticare l’obiezione di coscienza. 

Il 6 settembre 2011 in una lettera alla stampa firmata da una trentina di insegnanti, contro l’ipotesi  che si tenga in una scuola pubblica (l’ITIS Fauser di Novara) e con soldi pubblici un corso postdiploma per tecnici da impiegare nella realizzazione del supertecnologico e costosissimo cacciabombardiere F35,  affermano “Noi, che siamo insegnanti di Novara e dintorni, noi, che non stimiamo la guerra né utile né  giusta, noi, che consideriamo tutte le fabbriche d’armi nient’altro che fabbriche di morte, noi ci permettiamo, a scanso di equivoci futuri, di invitare giovani e docenti a boicottare il corso di cui sopra. Sarebbe bello che  nessun giovane novarese si iscrivesse ad un corso di questo genere, lasciando le aule tristemente vuote.  Sarebbe pure sacrosanto che nessun docente accettasse di insegnare in questo corso destinato a formare  fabbricanti d’armi e di morte”. Sì, si aprono nuove strade per l’obiezione professionale, che affermano ancora una volta la supremazia della propria coscienza sulle armi e che rivendicano il diritto ad un lavoro  socialmente utile, ecologicamente compatibile ed eticamente corretto. 

 

12 dicembre 2011

Approfondimenti dall'archivio

Datatable - Inizio