Cooperazione internazionale e pacifismo non sono due pratiche di azione solidale generate da pensieri e storie distinte. Le loro strade si sono sempre incrociate nel percorso per un mondo di diritti e giustizia globale. Non hanno talvolta camminato visibilmente affiancate, ma nessuna delle due ha scelto direzioni divergenti. Non vi è Pace senza giustizia sociale. Le relazioni comunitarie sono il terreno di semina delle buone pratiche della completa sostenibilità dello sviluppo (socio-culturale, economica, ambientale ….) e il loro habitat naturale si mantiene solo nella condizione di Pace.
I conflitti dell’oggi non differiscono da quelli che li hanno preceduti, perchè sono generati da fattori conosciuti, spesso da lungo tempo irrisolti : diritti violati e negati, sopraffazioni e tragedie umanitarie provocate dal prevalere degli interessi economici, finanziari, politici di una minoranza che detiene la ricchezza o la forza del potere. Il contesto sicuramente è variegato, gli attori nei singoli scenari cambiano, ma la logica di sopraffazione è la stessa, medesime sono le drammatiche conseguenze sulle vittime civili.
L’attuale diffusione di conflitti e guerre regionalizzate nel continente è un dato impressionante: il Conflit Index presentato da ACLED nel 2024 registra un aumento del 40% negli ultimi 3 anni; su 234 paesi monitorati, ben 168 nel 2023 hanno registrato un episodio di conflitto. Le cause delle violenze dell’oggi sono aggravate dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, provocati da uno sfruttamento criminale delle risorse naturali del pianeta legato ad un consumo irresponsabile, depredato e violentato da produzioni energetiche non rinnovabili : soprattutto in Africa, la desertificazione delle terre porta all’accaparramento di aree ancora fertili in uno scontro tra entità locali (Stati ma anche comunità e gruppi), il tutto alimentato dalla corruzione di governi che accettano accordi con multinazionali o comunque grandi imprese in cerca di risorse naturali ed energetiche da sfruttare.
L’allontanamento coatto di fasce di popolazione da aree coltivabili o di capacità estrattiva è un dato drammaticamente certo nei paesi ad alto tasso di povertà: numerose persone attiviste di comunità indigene del pianeta si sforzano di portare all’attenzione del mondo le violazioni dei diritti, collegate a scellerati accordi internazionali economico-commerciali, pagando le loro azioni di denuncia con la perdita della libertà o della vita. Sono voci coraggiose che si scontrano con la convinzione della maggior parte dell’opinione pubblica mondiale che guerre e conflitti di dimensione regionale abbiano un carattere locale, non generino ripercussioni a livello globale.
Ed è qui, sulla complessa sfida di riuscire a contrapporre con autorevolezza argomentazioni che confutino questa falsa certezza, che si delinea la radice comune del cammino condiviso della solidarietà, della cooperazione internazionale e del pacifismo. Faccio un passo indietro nella mia analisi, ma tendendo conto degli elementi fin qui riportati.
Nel 1967 in Italia, in una valle tra Lombardia e Piemonte, nasce l’Operazione Mato Grosso, un’iniziativa che cambia la lettura dell’aiuto nell’ambito cattolico, ma non soltanto, passando dall’approccio caritatevole delle missioni alla promozione di un’azione di volontariato laico, soprattutto giovanile, che mette insieme la raccolta fondi qua e le attività nei campi internazionali in America Latina con la denuncia delle ingiustizie sociali, economiche e politiche e le violazioni dei diritti di quelle popolazioni indigene. La specificità che riconosco al pacifismo italiano, che ha sempre posto al centro della sua attenzione e azione la tutela dei diritti umani, ha trovato in esperienze come quella del volontariato internazionale in attività solidali la traduzione in “concretezza del fare”. Questo è agire in coerenza, come una rete, valorizzando le diverse anime e pratiche per affermare il valore assoluto della Pace nella lotta a povertà e ingiustizie.
Ho vissuto da adolescente l’esperienza di parrocchia della raccolta di aiuti per l’Operazione Mato Grosso e in linea di coerenza, appunto, sono poi arrivata alla cooperazione e solidarietà internazionale delle organizzazioni laiche. Il mio percorso non è un’eccezione: ripeto, qualunque sia stato e sia ancora per le giovani generazioni l’inizio di questo percorso di impegno civico nella solidarietà, è naturalmente accompagnato dai temi cari al pacifismo e alla buona cooperazione Internazionale. Per fortuna da anni esistono il Servizio Civile Universale, i Corpi Civili di Pace, il Servizio volontario Europeo. Chi si è impegnato perché queste opportunità di azione civile fossero realtà sono stati il Movimento Non Violento e per il Disarmo, le associazioni del movimento pacifista, le ong di volontariato e cooperazione internazionale, nel mondo laico e cattolico: in Italia penso ad Arci, Acli, Focsiv, Comunità di Capodarco, Lunaria, Un Ponte Per, Cocis, Associazione Papa Giovanni XXIII con i Caschi Bianchi, Legambiente e altre: un gran lavoro di convergenza.
Queste esperienze diffuse, vedono impegno nei progetti e programmi di accoglienza delle popolazioni migranti, diffusione di buone pratiche locali di sviluppo sostenibile e rafforzamento della cittadinanza attiva delle comunità, tutela dei diritti umani e di chi li difende e afferma, dialogo per la convivenza pacifica. Sono tessiture di relazioni globali facilitate da un volontario che promuove il protagonismo dei territori e le aggregazioni sociali.
La domanda più frequente rivolta oggi al pacifismo è perché non riesce più a portare fiumi di persone in piazza come nel passato, di fronte alla guerra in Ucraina e all’occupazione militare di Gaza, ai massacri di civili e alle distruzioni che non vedono altra riposta dai governi se non la follia del riarmo. Non sono forse la persona più adatta per rispondere, ma ho un particolare spazio di osservazione focalizzato sulle giovani generazioni rispetto alla reazione a questo mondo di violenze e conflitti diffusi. Provo a metter idee su carta.
Mi sono convinta che il pacifismo italiano, attento alle costruzione di vertenze condivise con le comunità di cittadine e cittadini nel nostro Paese e nel mondo, non sia poi stato in grado di tenere un percorso unitario negli anni, di lavorare sulla storia e la memoria per stimolare e aggiornare la riflessione fattiva e la missione rispetto alle trasformazioni di un mondo cambiato, che pure nella quotidianità ha colto e affrontato, in cui si è immerso. Molto del pacifismo italiano degli anni’80 e ’90 ha fatto le scelte della militanza nei partiti e della vita nelle istituzioni, dell’impegno nell’associazionismo e nelle carriere lavorative volte a sostenere le fasce più deboli della società o a contrastare le ingiustizie lavorative, sociali, ambientali, politiche: chapeau! Tanto di cappello! La coerenza dell’esperienza di movimento ha quindi continuato a contraddistinguere la vita di tante e tanti. Ma non ci si è sforzate e sforzati a mantenere il legame di un percorso e di un lavoro comune.
Da qui la parziale perdita della memoria di quella ricchezza, che non è stata raccontata alle generazioni seguenti. Perché la narrazione, pratica complessa a e delicata, che va preparata con accuratezza, non è mai intesa come parte integrante del nostro operare civile. Eppure la memoria organizzata e il racconto di protagoniste e protagonisti hanno permesso in Italia di salvaguardare e trasmettere la storia della Resistenza al nazifascismo. C’è modo e tempo per farlo anche per il pacifismo, a partire da questa iniziativa, che è strumento prezioso.
Sempre restando un passo indietro nel tempo nella mia analisi, Arci, la mia Casa dell’associazionismo partecipativo e della promozione sociale, ha legato la sua vocazione internazionale di sostegno alle cause e ai movimenti per l’autodeterminazione dei popoli e per l’affermazione dei diritti (tutti) a campagne di raccolta fondi collegate e di partecipazione attiva dei circoli e comitati. Arci ha fatto tantissimo per la fine del conflitto pluridecennale tra Israele e Palestina e l’affermazione dei diritti del popolo palestinese, per la pacificazione in quell’area così devastata da guerre e violazioni dei diritti umani, per il dialogo tra le anime più sinceramente democratiche di quelle due realtà. Lo ha fatto copromuovendo iniziative e mobilitazioni nazionali e internazionali insieme ad altre istanze associative importanti, prime fra tutte le Acli, il mondo sindacale, studentesco democratico, gli stessi enti locali più attivi sui temi del pacifismo. Lo hanno fatto insieme avvicinando il lavoro politico al lancio di campagne di solidarietà che altre e altri avranno meglio ricordato e descritto in questo spazio. Arci e ACLI hanno portato nel mondo del Terzo Settore italiano le istanze globali, facilitando l’ingresso di quelle allora definite le “ong” della cooperazione internazionale.
Oggi le reti delle organizzazioni più impegnate a livello internazionale partecipano alla vita del Forum del Terzo Settore italiano, influiscono anche su scelte di posizionamento coraggiose per una rappresentanza che ha al suo interno sensibilità politiche differenti: il Forum non si tira indietro, oggi, nel sostegno alle navi del soccorso in mare, sul tema della buona accoglienza di persone rifugiate e migranti e sul rispetto dei loro diritti, nella vertenza della Campagna 0,70,che chiede l’impegno dello 0,70 della ricchezza nazionale per la cooperazione internazionale allo sviluppo entro il 2030, in linea con l’Agenda delle Nazioni Unite. A partire dagli spazi nelle rappresentanze ampie, nel dialogo con le reti sociali europee, nella collaborazione con il mondo universitario che sta coinvolgendo le organizzazioni solidali nella formazione e nei corsi magistrali e nei master, si sta riaprendo lo spazio per recuperare il tempo del dialogo frammentato e un poco perso sul valore dell’agire unitariamente per la Pace e la lotta a ingiustizie e povertà.
Occorre porre al centro, però, la priorità del coinvolgimento delle giovani generazioni in questo egregio percorso, assumendo la postura di chi si racconta e si mette in discussione, mantenendo i punti fermi del valore su cui abbiamo posto le basi del nostro operare per la Pace. La fame di conoscere c’è e va data una risposta. Fa bene anche a noi, perché ci spinge a superare il recinto del fare bene “a casa nostra”. Questi lunghi anni di portavoce e presidente di una rappresentanza composita in cambiamento continuo, le “ong” italiane di AOI, mi ha aperto un orizzonte di lettura del contesto dell’impegno di volontariato e progettazione e di solidarietà attiva. Sono certa che è in grado di avere, nonostante gli attacchi di parti politiche e media, una capacità di resistenza e di rilancio impensabile.
Oggi la sfida per riallacciare il filo di un mondo connesso nella difesa dei diritti civili e umani a livello globale passa, in perfetto collegamento con l’animazione del mondo giovanile, nella scelta della “localizzazione”. Si tratta di un approccio nei programmi di cooperazione internazionale che porta ad un cambiamento nell’interpretare il partenariato. I sistemi locali, le comunità e le aggregazioni di cittadine e cittadini, le università, nei loro Paesi divengono soggetti prioritari di gestione responsabile di progetti e programmi, di iniziative finanziate: coprogrammazione e coprogettazione non sono solo un esercizio legato all’esigenza umanitaria o di sviluppo locale, qui le nostre “ong” ripensano il proprio ruolo come facilitatrici di animazione comunitaria e di scambio di pratiche, come tessitrici fattive di relazioni globali di continuità. Si tratta di lavorare sulla formazione di competenze, partendo dalla valorizzazione di quelle esistenti e rafforzandole, di difendere questa acquisizione di autonomia e di cittadinanza attiva locale, mettendo in rete le relazioni internazionali grazie alle esperienze diffuse della nostra cooperazione internazionale. Da qui, un differente ruolo della/del cooperante, che risponde di un compito non più tecnico-operativo, ma di animazione sociale oltre la sfera settoriale dell’intervento e di coinvolgimento della solidarietà diffusa nel nostro caso italiana.
E’ evidente che questo cambio reale di paradigma coinvolge nella corresponsabilizzazione le nostre comunità, non più come luogo di sensibilizzazione e raccolta fondi, ma come attrici dirette: riporta ad un percorso in parte sperimentato e abbozzato con esperienze come quella dell’ICS, il Consorzio Italiano di Solidarietà, nella guerra in ex-Jugoslavia, che lascio raccontare ad altre voci. Il volontariato giovanile, i viaggi di conoscenza e lavoro solidale all’estero nei luoghi dei progetti, la ricerca, selezione e formazione di cooperanti, l’associazione di cooperazione internazionale impegnata nell’ideazione e messa a disposizione di contatti e relazioni, divengono un esercizio di coprogettazione che può davvero trasformare il pensiero egoista e intollerante che ha larga diffusione oggi.
L’affermazione della Pace nei suoi valori e nella sua giustezza non può davvero prescindere da un’offerta del “fare”, dell’ingaggiare la persona e la realtà in cui vive e si forma e agisce in una conoscenza che fa superare stereotipi e confini ideologici. Non mi preoccupa l’attuale presenza ridotta, soprattutto delle realtà giovanili, alle manifestazioni di piazza, mi stimola per contro lo scenario delle possibilità di coinvolgerle nelle tante occasioni di azione civile, che obbligano il pacifismo e la solidarietà internazionale a riprendere quel cammino comune per un mondo meno affamato, più giusto e sostenibile.
Come scriveva Pablo Neruda, per un futuro di Pace e Giustizia è importante poter dire con orgoglio: “Confesso che ho vissuto”.
Silvia Stilli