Bloccare il gigante del liberismo con i piccoli fili delle azioni quotidiane e delle campagne che tutti, proprio tutti, possono contribuire a realizzare: fu questo l’obiettivo che nel 1999 cucì insieme la Rete Lilliput, singoli e associazioni che, mutuando l’immagine dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, coltivarono l’intuizione che non fosse possibile mantenere la pace senza un’economia di giustizia. Le associazioni che misero al servizio dei nodi territoriali le proprie analisi e capacità di mobilitazione rappresentavano, insieme, tutti i vari aspetti dei punti d’entrata della policrisi economica, sociale e ambientale che oggi alimenta l’escalation militare globale. Insieme agli ambientalisti del Wwf c’erano le ong come Mani Tese, Aifo, Rete Radié Resch, Chiama l’Africa, poi le campagne di analisi economica come Sdebitarsi, Stop Millenium Round, la Campagna per la riforma della Banca mondiale, i Bilanci di Giustizia, il Centro nuovo modello di sviluppo, e ancora i pacifisti di Pax Christi e Beati i costruttori di pace, insieme al commercio equo di Ctm, Roba dell’Altro Mondo e le Botteghe del Mondo. Dal locale al globale, connettendo nodi territoriali con le altre reti nazionali e internazionali, ci si educava reciprocamente a capire come ci si poteva affrancare dal colonialismo attraverso il sostegno ai piccoli produttori locali dei Paesi emergenti, come vincere l’impotenza comprendendo e manifestando per bloccare vertici e meccanismi delle grandi istituzioni finanziarie e commerciali globali, come proteggere clima e biodiversità, ma anche come scegliere la pace nelle stesse modalità di decisione collettiva delle azioni da condividere. Lillipuziane, quindi, nonviolente, lente, elaborate e concordate senza capi ma in gruppo, con il metodo del consenso, prendendo parola attraverso portavoce a rotazione e per competenza, uomini e donne.
Nelle prospettive condivise in quegli anni, la traiettoria della fase presente era ampiamente prevista: la giustizia economica che si praticava si traduceva in proposte politiche che favorissero non solo la crescita e l’idolatria del Pil, indiscussa in quegli anni, ma soprattutto il benessere delle comunità. Prediligendo le pratiche di commercio equo, agricoltura sostenibile e la valorizzazione dei beni comuni, Lilliput ha cercato di articolare all’intero dei movimenti altermondialisti di quella fase, e comunicare in Italia un modello economico in grado di rispondere alle sfide globali. Scelte non sostenute da cornici normative coerenti, a livello locale e globale, tanto che, nel 2024, i dati sull’ingiustizia sociale e ambientale e sulla povertà sono allarmanti. Secondo l’ultimo rapporto della Banca Mondiale, circa 700 milioni di persone vivono ancora in condizioni di estrema povertà, con meno di 1,90 dollari al giorno. Numero aumentato negli ultimi anni, in parte a causa della pandemia ma soprattutto della serie di crisi economiche e finanziarie globali che si sono succedute a scadenza quasi regolare. Data, inoltre, l’accelerazione estrattiva che le filiere globali e le piattaforme hanno impresso al sistema produttivo, l’ineguaglianza di reddito ha raggiunto livelli record, con l’1% della popolazione che detiene oltre il 40% della ricchezza globale. Senza pensare agli effetti di quello stesso modello sull’equilibrio naturale: la Commissione Europea ha stimato che entro il 2030 circa 26 milioni di persone all’anno potrebbero essere costrette a lasciare le loro case a causa di eventi climatici estremi. Questo scenario rende evidente come le ingiustizie sociali e ambientali siano interconnesse e come la mancanza di giustizia ambientale contribuisca a perpetuare la povertà.
Questa visione è ancora particolarmente significativa in un contesto di crescente polarizzazione tra capitalismo di Stato e capitalismo di mercato. Ragionando, ancora, da lillipuziani si assume una postura che è ancora quella dei primi anni Duemila: quella di “Davide” contro il “Golia” dei poteri economici consolidati, sostenendo che l’economia deve essere al servizio delle persone e non viceversa. In questo senso, la giustizia sociale e ambientale diventa un principio cardine per la costruzione di una pace che non sia solo assenza di guerra, ma un vero stato di benessere collettivo. La necessità dell’azione collettiva e dispersa appare ancora più strategica in un tempo come quello presente dominato dalle grandi concentrazioni: non parleremo più solo di multinazionali, ma di grandi gruppi economico-finanziari che entrano potentemente non soltanto nei mercati ma nelle organizzazioni, logistiche e regolazioni degli Stati con la potenza delle società di consulenza, di logistica e servizi che controllano tutto il funzionamento materiale della macchina regolatoria, amministrativa e geopolitica degli Stati, anche lontanissimi, in un pugno di ragioni sociali.
L’economista cristiano Luigino Bruni commentava dai suoi social, pubblicando la foto di “Luce” la piccola mascotte manga del Giubileo 2025, che la sua gestione da parte di una delle più grandi società di consulenza corporate “rischia di trasformarlo in un grade evento globale come le Olimpiadi o i Mondiali, con relativa mascotte”, e quindi di “mettere anche i grandi eventi della chiesa nella macchina organizzativa globale che usa per tutti la stessa logica”. Una logica colorata ma distruttiva, che aumenta “il mercato della fuffa, dell’effimero”. Insomma, secondo Bruni “annunciare una ‘buona novella’ dentro una ‘cattiva economia’ non funziona”. Un futuro di pace, dentro una cattiva economia, non c’è. E noi, lillipuziani sempre più piccoli tra giganti sempre più paradossali, non dobbiamo perdere la pratica concreta e quotidiana di unirci per buttarli giù.