Con la pace come problema, e anzi come obiettivo difficile da raggiungere con impegno e lotta prolungata, io mi sono imbattuta molto presto, appena finita la guerra – che ci aveva indotto a pensare che stare in pace sarebbe stato normale, non una condizione rara, già subito da riconquistare.
Partigiani della pace
Andando a frugare nei miei grandi files, che contengono quintali di documenti, ho trovato, proprio fra le prime carte, un cartoncino rosa e bianco: l’invito alla prima conferenza dei Partigiani della Pace tenuta a Parigi nella immensa salle Playel nel 1949, quella dove comparve per la prima volta la famosa colomba disegnata da Pablo Picasso, in bocca un ramoscello di olivo. E’ lì che venne lanciata la grande campagna mondiale che avrebbe poi portato alla raccolta di firme a sostegno dell’appello rivolto ai 4 grandi (ufficialmente lanciato l’anno successivo a Stoccolma) affinché rinunciassero alla bomba atomica.
La prospettiva che Hiroshima potesse esser ripetuta era infatti tornata alla ribalta in occasione dello sconcertante discorso tenuto dal primo ministro britannico Winston Churchill a Fulton, nel Missouri, dove era stato invitato a parlare dal presidente americano Truman, il quale aveva annunciato che la guerra era tornata all’ordine del giorno, per ora sia pure in versione “fredda”.
Il carteggio fra i tre grandi (assai interessante per il reciproco apprezzamento, e quasi simpatia, a Stalin la Gran Bretagna conferì addirittura il più alto riconoscimento dell’Impero ) si era appena interrotto, e non per una bagatella: proprio Churchill e Truman, ahimé successore alla testa degli Stati Uniti di un gran personaggio come Roosevelt, avevano deciso di procedere alla costruzione delle bombe A senza neppure avvertire l’alleato sovietico. Come era ovvio, Mosca aveva risposto “per le rime”: quelle bombe le avrebbero fatte anche loro.
La campagna molto vasta che seguì l’incontro della salle Playel – oltre 519 milioni di firme sull’appello di Stoccolma, di cui 16.680.669 in Italia – non venne definita “pacifismo”, è vero. Il pacifismo aveva preso piede soprattutto nei paesi anglosassoni alla vigilia della prima guerra mondiale, ma non ebbe mai la simpatia, né di Lenin né di tutta quella parte della sinistra che si oppose a quel primo scontro bellico mondiale: un’aspra polemica che produsse la rottura storica fra socialdemocratici e comunisti, e che isolò i pacifisti, sebbene la loro scelta comportasse la durissima pena della fucilazione. Furono avvertiti come “neutralisti”, le loro motivazioni solo moraliste e religiose, non politiche. I Partigiani della Pace non erano certo la stessa cosa dei pacifisti, un movimento nato dal basso e autonomo come il nostro attuale: furono piuttosto l’espressione popolare della posizione del campo sovietico.
E però in merito a quel pezzo di storia, di cui varrebbe la pena di parlare di più di quanto si sia invece fatto negli ultimi decenni, voglio raccontarvi solo un piccolo dettaglio che dimostra quanto fosse comunque vissuto e partecipato: in particolare in Italia, dove era animato da un PCI che come Togliatti amava definirlo era una “giraffa”, e cioè stravagante, diverso – per via di quelle sue gambe e del collo lunghissimi – dagli altri animali, così come il Pci era diverso dagli altri partiti c.d. fratelli. Alla conferenza di Parigi, infatti, da dovunque erano arrivate soprattutto le élites intellettuali, certo molto significative; dall’Italia, invece, la presenza più imponente era quella di una ventina di donne delle borgate romane. Io ero lì in quanto loro accompagnatrice ed ebbi in merito qualche problema: alloggiavamo come tutti i delegati in un bellissimo albergo di Place de la République, dove consumavamo anche i nostri pasti assai raffinati. Ma le compagne tutte le sere protestavano, perché si alzavano ancora affamate: non c’era la pastasciutta, e non si capacitavano perché.
Quelle donne, sia chiaro, non erano lì come vuoto distintivo, bensì come reali protagoniste di una campagna che in Italia assunse caratteri davvero popolari e di massa. Nei loro quartieri si erano impegnate a parlare con le loro vicine, a spiegare, a ottenere la firma sotto quell’appello di donne di tutti i continenti cui la sola prospettiva di tornare alla guerra faceva orrore.
Un nuovo movimento
Il movimento per la pace l’ho re-incontrato molti anni dopo, ormai cinquantenne, e anche quello travalicava i confini dell’Italia; ma io stavo già nel Parlamento europeo, dunque per me l’incontro è arrivato più presto.
L’impulso era partito dall’Inghilterra, dove già nel 1958 era nato il CND (Campaign for Nuclear Disarmament), con il simbolo poi diffuso in tutto il mondo e le prime grandi manifestazioni attorno alle nuove basi che gli inglesi erano autorizzati ad allestire in proprio in quanto il loro paese era ufficialmente una potenza nucleare. È da questa storia che nasce anche la campagna END (European Nuclear Disarmament), lanciata nel 1980 dalla Bertrand Russell Peace Foundation. E fra gli arrestati alla prima delle manifestazioni del nuovo movimento ci fu proprio lui, il grande filosofo Bertand Russel, già ottantenne, perché si era seduto a terra nella grande Trafalgar Square ostruendo il traffico!
Estendere l’impegno al resto d’Europa fu merito di Edward Thompson, grande storico inglese, che è restato poi sempre il più autorevole esponente del movimento. Fu lui che inventò lo slogan “Un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali” che conteneva un messaggio politico ben più significativo del puro disarmo, in quanto introduceva, sia pur indirettamente, l’ipotesi di una Europa autonoma dalla Nato, e inclusiva di un bel pezzo di Russia. A lavorare per costruire il movimento che avrebbe assunto come propria questa ipotesi fu Ken Coates, presidente della Fondazione Bertrand Russell: cito il suo nome, che molti giovani oggi nemmeno più ricordano e vorrei invece fosse inserito fra i più importanti della nostra storia perché gli dobbiamo molto.
Fra l’altro fu proprio lui, che per primo ci fece scoprire Comiso. Ricordo bene quando, nell’autunno dell’81, mi telefonò dalla Spagna dove era per non so quale convegno e mi disse: sai dove il 7 d’agosto hanno deciso di installare in Italia i nuovi missili del piano varato dalla Nato? No, risposi. “Comiso” mi annunciò. Lui non sapeva dov’era questa località, ma più grave è che non lo sapessi neppure io.
“Deve essere in Friuli” – gli risposi. “Adesso mi informo e ti richiamo.” E mi precipitai a cercare Comiso in quella regione, visto che la prima linea della guerra che minacciava ogni arma del blocco militare cui l’ltalia apparteneva era la più vicina al confine del Patto di Varsavia. Non mi ero accorta che la guerra chiamata fredda si stava evolvendo e cominciava ad abbracciare esplicitamente anche il sud del mondo: l’est/ovest aveva incluso il Nord/Sud nel proprio orizzonte. Come è noto ce ne accorgemmo non molto tempo dopo; non subito, tuttavia, perché questa novità che noi mediterranei percepimmo facilmente non fu inizialmente avvertita dai nordici, tutti a ridosso della prima linea della guerra immaginata. E per una fase furono molte le discussioni che si svilupparono nel pacifismo europeo. Forse solo con la guerra in Irak, dunque circa dieci anni dopo, la percezione della dimensione Nord-Sud divenne patrimonio comune.
Comiso, Europa
Scoperto che Comiso era nientemeno che in Sicilia e per di più in una zona piuttosto sconosciuta della regione, chiesi a Claudio Riolo, allora segretario del Pdup in quell’isola, di andare a vedere. Il sindaco della cittadina – ci informarono – era socialista, un ortopedico. Specifico la professione per raccontarvi che quella città è stata fatale per il mio corpo: oltre alle botte e ai temibili getti degli idranti degli anni successivi, andando a incontrare lì il suo Primo cittadino, Turi Catalano (una giunta Psi,Psdi, DC), appena messo piede sulla piazza antistante il Municipio, ho preso una storta così forte che, arrivata con una gamba tutta gonfia, il professore-sindaco, con molta gentilezza, si fece portare gli ingredienti e mi fasciò lui stesso l’arto ancor prima che cominciassimo a spiegargli le ragioni della nostra visita. Di quanto mi aveva anticipato Ken Coates non sapeva ancora niente.
E’ proprio così che l’embrione pacifista della nostra generazione che anche in Italia stava nascendo, ma qui da noi con poco vigore perché, a differenza di quasi tutti gli altri paesi europei, non sapevamo ancora dove sarebbe stato il focus della nostra battaglia, scoprì che proprio la provincia di Ragusa, nel sud della Sicilia, sarebbe stata per più di un decennio l’epicentro del nostro impegno politico. E dei nostri viaggi. E della nostra identità europea.
Quello che è certo, infatti, è che non si può parlare del pacifismo italiano di quegli anni senza parlare di quello europeo perché – e questo in modo molto evidente – la scoperta dell’Europa, e poi l’incontro con la cultura e l’esperienza dei paesi nordici, è stata per l’Italia fondamentale. Tutt’ora la considero la sola volta in cui siamo stati europei, nel senso di parte di una società che aveva molte cose da dirsi fra paesi e molte esperienze da scambiarsi. E anche, vorrei aggiungere, che il pacifismo degli anni ’80 è stata l’occasione per capire che non avremmo mai potuto cambiare l’UE, incidere sul suo modo di essere, se non quando fossimo stati capaci di diventare un pezzo autentico di quella società. In una parola: che non avremmo mai potuto cambiare le tante cose che dell’UE non ci piacciono, modificando i suoi Trattati con un voto del parlamento, se non ci fosse stata una forza che veniva dal basso, la forza di un pezzo della società. Purtroppo dall’inizio del millennio non siamo più riusciti a costruirne una, né per la pace, né in realtà per nessun altro obbiettivo. Anche per questo riparlare dell’esperienza pacifista è importante, e questo sito può e deve diventare una dispensa scolastica!
Pace e Guerra, socialisti militaristi e socialisti pacifisti
Visto che fra quelli che vi scrivono io sono di gran lunga la più vecchia vorrei esser sicura che comincio a dirvi proprio dell’inizio e poi di tutte le tappe importanti del primo periodo. Che però sono tante e perciò mi aiuterò con Pace e Guerra, una singolare pubblicazione – mensile prima settimanale poi – che come si capisce anche dal titolo col movimento pacifista ha avuto molto a che fare. Si tratta infatti di una pubblicazione che per i quasi 5 anni che è durata ha seguito l’evoluzione del movimento giorno per giorno, non solo in Italia ma nel mondo, e ha anche dato voce agli autorevoli personaggi politici che in Europa in quel periodo sono stati strettamente in collegamento col movimento, i leader socialdemocratici quasi tutti in quella fase piuttosto di sinistra: Olaf Palme, in Svezia, Michael Foot, in Gran Bretagna, Kreyski, in Austria, metà almeno della Spd tedesca, Papandreu in Grecia, il Psoe spagnolo, il partito danese e quello olandese, associato con la forte organizzazione della Chiesa protestante, la IKV, ecc.
Non voglio farvi la storia di Pace e Guerra, per carità, ma almeno qualche cosa in proposito debbo dirvela per capire come mai questa pubblicazione è stata così importante per il pacifismo. Quando nasce infatti, alla fine degli anni ’70, si può dire che siamo all’inizio di un cambiamento storico in Italia, quello che è stato chiamato dalla prima alla seconda repubblica. La DC sta perdendo la sua egemonia e dunque anche la sua indiscussa legittimità a governare, e però non è pronta un’autonoma alternativa di sinistra. E’ su questo che si inserisce la svolta del PSI di Craxi che decide di giocarsi, da solo e non con tutta l’area di sinistra, a cominciare dal PCI, la carta dell’accesso al governo. Nasce così il “centro sinistra”, che però, per tornare al problema che qui ci interessa, ha come ministro della difesa il socialista Lagorio, che proprio il primo giorno della sua investitura, mentre è in corso la manifestazione a Comiso per protestare contro l’inizio dei lavori alla base dei “Cruise”, manda la polizia che ci picchia di santa ragione. Noi ci eravamo messi tutti a sedere davanti al plotone di celerini, come ci avevano insegnato i pacifisti inglesi esperti della tattica “non violenta”, e pensavamo che non ci avrebbero aggredito ma presi per le gambe e portati via. Purtroppo la polizia italiana della non violenza era all’oscuro e finimmo aggrediti anche noi deputati, il gruppetto presente nel movimento, collocati in prima fila proprio perché considerati inattaccabili. Finimmo in ospedale, e qualche tempo dopo ricevetti una lettera anonima da uno degli agenti, che mi chiedeva scusa e esprimeva la sua indignazione per il compito che gli era stato affidato.
Non tutti i socialisti italiani, però, avevano condiviso la decisione Nato di accettare l’installazione di missili in Europa, e infatti una parte di loro dà vita a una “Lega dei socialisti”, dissenziente con la leadership del proprio partito. E d’accordo non è neppure buona parte degli “indipendenti di sinistra”, gli autorevoli intellettuali eletti nelle liste del PCI. Fu proprio da questi settori della sinistra che venne il sostegno e, di più, la attiva partecipazione alla direzione di Pace e Guerra, inizialmente affidata a Stefano Rodotà, Claudio Napoleoni (grande economista di area cattolica) e a me. Poi si aggiunse Bassanini, e quando la testata divenne settimanale un ruolo particolare fu affidato a due giornalisti, Nicola Cattedra (ex direttore dell’Ora di Palermo) e poi Michelangelo Notarianni (autorevole esponente della Fgci degli anni ‘50 e poi nel Manifesto).
Un ruolo di primo piano nella costruzione del movimento lo ebbe la Fgci, nonostante le perplessità che ogni tanto emergevano nel PCI per qualche parola d’ordine non proprio in linea, e così, dopo anni di freddezza reciproca, si instaurarono nuovi e stretti legami con la c.d. “nuova sinistra”. Parecchi sono comunque anche i dirigenti del PCI che scrivono sul giornale: ricordo, fra gli altri, un impegnato confronto Napolitano/Magri, e poi articoli di Occhetto. Così come di socialisti che sono rimasti nel PSI, a cominciare da Giorgio Ruffolo; ma ora che vi ho spiegato da quale fonte sono tratti molti dei documenti di cui vi parlerò, torniamo in Europa
Ritardatari? Nucleare militare, nucleare civile
Nel movimento pacifista europeo, per lungo tempo noi italiani siamo stati definiti “quelli che sono arrivati dopo”. Un giudizio non proprio giusto, perché poi noi, sebbene forse mai in proporzioni quantitative come quelle tedesche e britanniche, siamo stati importanti. E‘ vero tuttavia che all’inizio, mentre nel nord Europa già erano iniziate corpose manifestazioni contro l’installazione dei missili, in Italia la mobilitazione era ancora tutta focalizzata sul nucleare civile, più che su quello militare: a Montalto di Castro, dove era prevista la costruzione della più grande centrale elettronucleare in Italia, già nel 1977 ci fu il primo campeggio anti-nucleare, e la mobilitazione continuò a lungo, fino al referendum popolare del 1987, che sull’onda del disastro di Chernobyl sancì la fine di questa fonte energetica in Italia e l’impossibilità di entrare in funzione, per quella centrale appena finita di costruire.
Quando il pacifismo cominciò a mettere radici, fu naturale l’incontro fra i due movimenti; ma nella fase iniziale ancora no, e la sensibilizzazione sul tema del nucleare civile non provocò automaticamente una maggiore attenzione a ciò che stava avvenendo in Europa in materia di armamenti. Curioso, peraltro, che la stessa cosa accada con i Verdi tedeschi. Ero io stessa a Berlino per seguire il congresso della Spd, quando con qualche stupore vidi passare, sotto il palazzo dove stava svolgendosi il congresso di quello che allora era il partito di governo, un corteo Verde che protestava per le centrali nucleari civili e nulla diceva sui missili la cui installazione in Europa era stata appena decisa dalla Nato e approvata dalla Germania, argomento invece già centrale nel dibattito del Congresso, e fonte di un durissimo scontro al suo interno!
Ricordo che, su richiesta di Repubblica con cui qualche volta collaboravo, sull’argomento intervistai proprio l’allora primo ministro tedesco e presidente del partito, Helmut Schmidt. Imbarazzato, per via della forte sia pure minoritaria opposizione alla scelta compiuta dal governo, si giustificò, nel rispondermi, con quella che poi divenne il modo ambiguo di giustificarsi di tutti i governi che pur con molti dubbi non se l’erano sentita di rompere con la Nato: la c.d.”Doppelbestimmung”, la doppia decisione. In altre parole, la decisione già presa ufficialmente dalla NATO non sarebbe definitiva, ma temporanea ed eventuale, da eseguire solo se il negoziato in corso a Ginevra con il patto di Varsavia fosse fallito: una “temporaneità” già allora chiaramente illusoria.
Nel ripetermi la sua giustificazione, infatti, Schmidt ostentava una sicurezza che si vedeva non essere sincera. Io lo incalzai, chiedendogli: “ma installare tanti missili da tutte le parti è molto costoso, possibile procedere a una simile spesa se poi si pensa che verranno ritirati?” La sua risposta, rozza e diretta come era il linguaggio degli Jusos (l’organizzazione dei giovani socialisti da cui proveniva), ma che non era abituale per un esponente di così alto livello, mi fece quasi tenerezza: “Mica sono soldi nostri”, mi rispose.
Un movimento, tanti movimenti
È nel 1981, che la situazione non lascia più spazio alle ambiguità: ed è in quell’anno, che avviene il salto di qualità decisivo, dalla sola attenzione al nucleare civile all’impegno massiccio contro quello militare. Quando la Nato entra nei dettagli del suo programma – 572 missili, di cui 108 Pershing 2 e 464 Cruise – il movimento chiede finalmente e esplicitamente il disarmo; ma le rivendicazioni, nei 6 paesi prescelti per l’installazione degli “euromissili”, sono leggermente dissimili.
In Inghilterra, come dicevo prima, nel 1980 era nata l’END, il movimento per il disarmo nucleare europeo che si poneva esplicitamente l’obiettivo di una zona smilitarizzata dal Portogallo alla Polonia (col tempo, come già detto, verranno citati l’Atlantico e gli Urali: non una modifica di poco conto, anche se nessuno sembra averla allora rilevata, giacchè porre il confine del disarmo alle montagne che spaccano in Unione sovietica la Russia cd europea dalla Siberia non è cosa da poco, ipotizza una rete europea vera e propria). Questa ipotesi, già molto più avanzata che il semplice disarmo, è inoltre esplicitamente condivisa dal nuovo leader del partito laburista, Michael Foot. E non è un dettaglio da poco.
Molto più etico e meno politico il movimento olandese, di cui la principale componente è la IKV, organizzazione legata alla chiesta protestante. Alla sua testa, molto presente in tutte le scadenze europee, è Mient Jan Faber, protagonista di primo piano di tutta la battaglia che si sviluppa negli anni ‘80. L’Olanda ha infatti assunto ufficialmente una decisione importanti: ha rifiutato l’istallazione dei missili almeno per ora, rovesciando il senso della “doppia decisione” fondata sul “casomai i missili poi li togliamo” in un “casomai poi li metteremo”.
Ancora diversa la Germania, dove il movimento pacifista è fortissimo ed è riuscito ad ottenere l’appoggio esplicito di una consistente opposizione che coinvolge anche i più importanti esponenti della SPD, e dunque del governo, a cominciare da Willy Brandt. E’ questa opposizione che riesce alla fine ad imporre al primo ministro Schmidt, che ha invece adottato la Doppelbestimmung, a confrontarsi pubblicamente in un dibattito col ministro della difesa Apel, che precede una immensa straordinaria manifestazione promossa ad Amburgo da 50 organizzazioni (studenti evangelici e Jusos, verdi e comunisti, che hanno in quella città una presenza eccezionalmente consistente).
Nell’ottobre del 1981, la mobilitazione europea raggiunge il picco: 300.000 a Bonn il 10, a Londra 200.000 e così a Bruxelles, solo 50.000 a Parigi dove il movimento avrà sempre scarsissimamente seguito, e invece la sorpresa di Roma, dove il famoso 24 ottobre scende in piazza più di mezzo milione di persone. Non a caso fu proprio quella data, la denominazione del primo comitato, che fu per anni il punto di riferimento di uno schieramento ancora molto parcellizzato, ma amplissimo.
Per la prima volta il movimento diventa realmente forza europea, comuni sono le parole d’ordine: smilitarizzazione, no ai missili, no alla politica delle due grandi potenze, Europa unita e autonoma.
Nel 1982, la END ufficializza il suo ruolo di punto di riferimento non più solo per la Gran Bretagna ma per tutti i paesi europei: per – come dice il documento che annuncia il passo in avanti compiuto – “collegare ed estendere le varie esperienze e per contribuire ad indicare alcuni grandi obiettivi di lotta. Questo – aggiunge – è il senso del nostro manifesto per il disarmo nucleare che ha già raccolto migliaia di adesioni fra personalità indipendenti, partiti, gruppi, prime forme di organizzazione pacifista, in Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Grecia, Islanda, Italia, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia e Jugoslavia.” Ma anche, e questa è una reale novità, della Cecoslovacchia, dell’Ungheria, della Polonia, vale a dire di paesi appartenenti all’altro blocco e che in modi diversi hanno cominciato a dar vita a una mobilitazione pacifista.
Avviene anche nella Germania dell’est, dove in generale si tratta di gruppi legati a questo o a quel pastore protestante, che con la scelta del pacifismo non smentiscono la loro posizione di dissidenti del regime in cui vivono, ma sostengono come il modo più efficace per cambiare il sistema non sia, come ufficialmente il dissenso chiede, attraverso la guerra, bensì, al contrario, attraverso misure di disarmo anche unilaterale che conducano allo scioglimento dei blocchi. Con questi gruppi avemmo numerosi contatti diretti: con il nostro passaporto occidentale potevamo prendere la metro che tutt’ora collegava la Germania ovest con quella dell’est, con modalità diciamo “semi clandestine”.
“Primo obiettivo – precisa ancora il documento END – è respingere il ruolo di spettatori passivi che si vuole assegnare agli europei: se le super potenze insistono nel continuare la corsa agli armamenti nucleari dobbiamo invitarli a puntarsi i missili fra di loro!”.
A dichiararsi sulla stessa linea molti dirigenti socialdemocratici europei: Palme, Foot, Martin Van Traa (responsabile esteri del partito socialista olandese), Heidemarie Wieczoreck Zeul della SPD, così come il suo omologo danese Lasse Budtz, e numerosi altri.
Le tante mobilitazioni locali che si succedono hanno comunque un significato che va al di là del problema missili: chi infatti si incontra per la prima volta è la società europea, non le sue istituzioni. Vengono alla ribalta le sue tante differenze nazionali, ma anche il valore che ha la reciproca conoscenza, in un continente da secoli abituato alle guerre intestine, dove ogni città è caratterizzate da archi di trionfo che celebrano la propria vittoria e che però ricordano anche la disfatta del paese vicino. Oggi riuniti, ma in modo ancora così formale, dentro una Unione Europa.
Voglio, a questo proposito, ricordare – perché è molto caratteristico – l’incontro, in realtà casuale, di un folto gruppo di pacifisti britannici, per lo più donne, a Comiso, ai confini del terreno assegnato alla base dove non erano ancora cominciati i lavori. Presenti, sul medesimo prato, un gruppo di parlamentari e esponenti politici siciliani (quasi tutti del PCI) che erano lì a testimoniare il loro impegno nella contestazione della decisione di costruire questa base di cui tanto si sta già parlando. Ma i due gruppi sono meravigliati, quando scoprono quanto i propri nuovi compagni di lotta siano da loro diversi.
Le e i pacifisti britannici ad un certo punto decidono di chiudersi in raccoglimento collettivo: a sedere sull’erba in silenzio assoluto, ognuna chiusa nella propria riflessione. Dall’altro lato, curiosi ma anche diffidenti, e rigorosamente in piedi, i maschi politici siciliani, cui sedersi per terra pare cosa inimmaginabile. A rompere gli indugi, nell’imbarazzo degli altri, finalmente Pancrazio De Pasquale, allora deputato regionale, marito di Simona Mafai, che, guardano i suoi compagni con aria di sfida, a un certo momento si siede anche lui per terra, silenzioso. E’ a quel punto che alla fine si siedono tutti. Un enorme passo in avanti europeista. Come è quello che si compie fra i pacifisti esteri e i vecchi di Comiso, tutto il giorno seduti ai lati della piazza principale, e che guardano i nuovi venuti come fossero marziani: anche perché quando è caldo la prima cosa che questi fanno quando arrivano è bagnarsi nella fontana delle Sirene. Alla fine cominciano a trattare con simpatia questi stravaganti stranieri.
Io sono tutt’ora convinta che proprio questo genere di esperienze sia stato uno dei grandi meriti del pacifismo degli anni ’80: per la prima volta un passo decisivo nel processo di costruzione europea, purtroppo assai poco ripetuto nei decenni successivi, con grande danno per quello stesso processo, che senza una partecipazione della società non riuscirà mai ad esistere. Come si fa infatti a chiedere che nell’UE si adottino misure di solidarietà reciproca e non si continui invece a parlare di concorrenza, se i tedeschi continuano a pensare che i greci non lavorano perché sono pigri, e i greci che i tedeschi sono tutt’ora tutti nazisti?
Le Convenzioni END
Il discorso pacifista europeo come si vede è ormai più preciso ed avanzato, ed è a questo punto che l’END decide di darsi anche un coordinamento politico-organizzativo a Bruxelles, affidato a Ken Coates, presidente della Fondazione Bertrand Russell (e in seguito deputato europeo nel gruppo socialista, poi della sinistra) e a me, allora già deputata europea. E’ nella capitale belga, dunque, che cominciamo a riunirci periodicamente; fra gli italiani, oltre a me, ricordo bene che a volte è venuto anche Tom Benetollo, non so dire se in rappresentanza del Comitato 24 ottobre o in altra veste, forse inviato dalla stessa commissione esteri del Pci, come osservatore.
Chi ha avuto in questa sede un ruolo apicale è stato certamente Lucio Lombardo Radice, celebre matematico, perché è stato lui a rappresentarci in molti incontri con personaggi importantissimi dell’establishment europeo. La sua presenza è stata costante, e importantissima, il solo grande anziano della nostra delegazione, morto d’infarto proprio mentre era con noi a Bruxelles. Fu un lutto improvviso per tutto il movimento europeo oltreché per quello, struggente, italiano. Ricordo con commozione, e dolore tuttora sentito, della telefonata che fui costretta a fare a Chiara Ingrao, sua nipote, per dirle dell’inatteso accaduto. E poi l’arrivo di sua moglie e suo figlio, i giorni trascorsi con loro in attesa del trasferimento della sua salma a Roma. Ricordo le sue ultime parole, al termine della nostra riunione, quando alcuni di noi si accingevano a scrivere il testo definitivo del documento preparato per la seconda Convenzione che stavamo preparando. “Non resto con voi – ci disse – tanto sembra che siamo ormai tutti d’accordo su come farlo, lo rivediamo domattina. Io ora sono un po’ stanco”. E così ci lasciò dopo una lunga giornata di lavoro, 9 ore tutte di fila, con i rappresentanti del pacifismo di 8 diversi paesi.
Era l’82, e dopo la prima Convenzione che avevamo tenuto proprio a Bruxelles, stavamo preparando la seconda, a Berlino: proprio lì anche perché nell’83 erano 50 anni dall’avvento del nazismo, che di devastazioni belliche era stato il più feroce protagonista. Lucio morì nel corso della notte, che trascorreva a casa del nostro principale e prezioso collaboratore inglese, John Lambert, perché voleva come tutti gli altri che da tutti i paesi venivano regolarmente alle riunioni Bruxellesi, alloggiare nelle case dei compagni e non negli alberghi troppo costosi per i pacifisti. Fu John che si accorse di notte del malore e lo portò di fretta all’ospedale Saint Pierre, dove spirò dopo qualche ora. Dalla riunione comunque non se ne era andato fin quando non era riuscito a far approvare l’invio di una nostra delegazione in Israele e in Cisgiordania per collegare subito i nostri obbiettivi con quelli dei gruppi pacifisti che erano sorti in ambedue le aree.
Qual è il prezzo della distensione?
Non è comunque tutta lineare la storia del movimento. La prima grossa controversa questione che si pone, più acuta nei paesi nordici che in Italia, ma anche in Italia importante, è data dalla vicenda polacca: prima nel 1980 la rivolta di Solidarnosc, poi nell’83 il colpo di stato “normalizzatore” del generale Jaruzelski. La Polonia diventa così per tutti, prima una speranza, poi una drammatica vicenda in rapporto alla quale il movimento pacifista deve decidere come confrontarsi. “Il pacifismo – afferma non ricordo il leader di quale organizzazione – non è solo difendere il proprio orto dai missili. E’ occuparsi del resto del mondo. Oggi bisogna manifestare per la Polonia. E questo il pacifismo lo sa”.
Si tratta di una questione difficile per tutti, perché rivela un’ambiguità della politica della distensione: chiedere il disarmo e sostenere una positiva conclusione del negoziato aperto in merito a Ginevra, non comporta il rischio di trasformarsi in una intesa fra le due grandi potenze per sospendere il riarmo, fondata sul tacito patto che, in cambio, le due parti non metteranno bocca sulle vicende dell’altro blocco? Zitti dunque sulle spinte anticoloniali del terzo mondo, altrettanto zitti sulla protesta dei dissidenti del Patto di Varsavia. Vale a dire: viene messa a tacere la sacrosanta domanda di libertà che investe l’una e l’altra grande potenza.
La questione in realtà è già calda all’inizio degli anni ’60 ed è anche quella su cui si innesta la rottura di Mosca con la Cina. Io ricordo bene quali problemi pose, non al movimento della pace che ancora non esisteva, ma, per quanto riguarda l’Italia, alla Fgci. Fu in occasione della prima conferenza per la pace dei giovani di tutto il mondo, convocata a Mosca nel ’61, prima volta invitate anche le organizzazioni non comuniste del terzo mondo e quelle socialiste, più il piccolo nucleo del pacifismo britannico che proprio allora era nato.
Era un’apertura avviata da Kruscev, un “pezzo” della distensione. Io fui inviata per quasi 6 mesi a Mosca come membro del comitato promotore, in rappresentanza di tutti i giovani comunisti europei occidentali. Per l’America latina c’era un cubano fresco di rivoluzione, per i socialisti un giapponese, per la Cina Ho Chi Li, presidente della All Chinese Students Federation (400 milioni di aderenti e in seguito diventato un personaggio politico di primissimo piano, con cui ho conservato rapporti di amicizia per sempre). Per l’Africa un ghanese. Perché proprio il Ghana? Perchè era il solo paese del continente che all’epoca fosse già indipendente, e perciò la scelta non avrebbe disturbato nessuna delle potenze europee ancora colonialiste! Quando fummo al finale e venne deciso che a parlare alla manifestazione conclusiva sarebbe stato proprio il ghanese, più il pacifista inglese, si alzò il rappresentante del FLN algerino e disse che se ne sarebbe andato per protesta con tutti gli africani.
Già l’inizio della conferenza era stato difficile, perché i sovietici, preoccupati che la questione dell’indipendenza nazionale di tutte le colonie ancora esistenti e molto presenti all’evento rendessero esplicita la polemica, avevano deciso di fare due diverse e parallele aperture, una sul tema coesistenza, un’altra sul tema indipendenza. Naturalmente tutti quelli dell’indipendenza non andarono all’apertura che gli era stata riservata e vennero in massa a quella sulla coesistenza, aperta da una terribile relazione del segretario dei giovani comunisti francesi e che parlò solo di coesistenza pacifica. Quando finì si alzò il delegato del Kenia, dove era in atto una delle prime guerriglie africane, quella dei Mau Mau, e disse: con che coraggio parli di pace che sono tre secoli che ci fate la guerra? Seguirono a ruota tutti gli altri africani. In fondo alla sala la delegazione cinese che ridacchiava: la storica rottura con Mosca divenne ufficiale solo pochi mesi dopo.
Noi della Fcgi cercammo di mediare, fra l’altro perché proprio la Fgci su questa questione aveva avuto dissensi col partito. All’ultima riunione del presidium della Conferenza moscovita, presenti io e Occhetto che era venuto come delegato da Roma, riuscimmo solo – ricordo – a inimicarci sia gli uni che gli altri.
Vi ho raccontato di questa conferenza per spiegare che il dibattito che si apre negli anni ’80 fra i pacifisti, e fra molti di questi e i rispettivi più prudenti partiti e governi, non era nuovo: era solo riesploso dopo i clamorosi fatti della Polonia. Questa problematica non era infatti scomparsa, e si riproponeva ora per i paesi dell’est europeo: come era possibile fare un accordo con Mosca in questa situazione, difronte a vicende come quella polacca? A polemizzare fu soprattutto Rudolf Bahro, originario della RDT e autorevolissimo esponente del movimento tedesco. In una lettera aperta del 1982 scrive che il solo modo di aiutare i polacchi è lottare nei nostri paesi contro le rispettive superpotenze, pur insistendo sul disarmo e però anche sulla necessità di rendersi indipendenti dai rispettivi blocchi. Più esplicito aggiunge: “la politica della distensione è incompatibile con la pace.”
La SPD reagisce subito con la risposta di un suo autorevole dirigente, Peter von Ortzen, che ne scrive sul settimanale die Zeit: un articolo nel quale però ammette che la “politica pacifista dovrà sapere progettare al di là dei limiti dello statu quo con più decisione di quanto finora accaduto.” Interviene sull’argomento anche Peter Brandt, figlio di Willy, che da sempre ha avuto, (e ancora oggi ha) un ruolo importante nel movimento, e allora era anche esponente della lista “Per l’alternativa” di Berlino. E’ anche il primo firmatario dell’Appello intertedesco per la pace, firmato nella RDT dal dissidente Haveman. Dice Peter: per la Spd, è vero, la distensione è sempre stata convergenza fra i blocchi, mai rimessa in discussione. E però ci dice, per favore “non perdete la calma, il rappresentante diplomatico della Repubblica federale a Berlino, capitale nella sua parte orientale della RDT, non attacca troppo per via della Polonia, ma dovete capire, noi siamo a 70 km da Varsavia, tanto quanto per voi Viterbo rispetto a Roma.”
Il PCI e il pacifismo
La Fgci, sensibile alla argomentazione di Bahro già da un pezzo, tiene il suo XXII congresso a Milano nel 1982: un congresso diversissimo dal suo XXI tenuto nel 1979, perché la posizione di tutti è ormai quella che verrà chiamata “terza via”, dalla definizione che nel frattempo viene data a questa linea che si riferisce in sostanza proprio alla linea della END. Pur non rimettendo in discussione l’appartenenza alla Nato – sostiene e dichiara anche Berlinguer, l’autonomia è un obiettivo che può esser raggiunto solo con lo scioglimento dei due blocchi, che resta l’obiettivo essenziale. Nel suo discorso al congresso della Fgci, Berlinguer apre al dibattito e ammette che comunque i partiti non esprimono più tutta la ricchezza della società civile: c’è dunque una apertura nuova ai movimenti, che devono giocare un loro ruolo indipendente. Una svolta a favore del nostro pacifismo importante, considerato che i movimenti erano stati condannati proprio da Berlinguer per “diciannovismo” (cioè per un atteggiamento simile all’estremismo del 1919, che portò poi all’ascesa del fascismo).
Nel valutare questa svolta, credo non sia inutile ricordare che Berlinguer, durante la legislatura in cui era stato parlamentare europeo, aveva avuto modo di incontrare vari esponenti della socialdemocrazia europea: a cominciare da Brandt, con cui il PCI come tale non aveva mai avuto rapporti, visto che Craxi, nel movimento socialista europeo, aveva praticamente vietato agli altri partiti di avere rapporti con il partito comunista italiano, temendo di perdere presso la socialdemocrazia europea la rappresentanza dell’ Italia a favore del ben più grande PCI.
E tuttavia la sinistra socialdemocratica è ben contenta di trovare un rapporto col PCI della cui importanza è ben consapevole. Ed così che, anche per via di questi incontri, si va rafforzando una nuova linea, più esplicitamente orientata all’autonomia dai due blocchi dell’Europa, che alla fine Berlinguer renderà esplicita e verrà chiamata “ la terza via”, un passo non propriamente condiviso da chi è preoccupato di riaffermare la propria appartenenza al blocco occidentale; ma il tema rimane latente.
Più imbarazzante la questione per Tom Benetollo, che, già attivo e autorevole esponente del movimento pacifista, si era però nel frattempo spostato da Padova a Roma, non più nell’ambito della Fgci, ma come responsabile pace della commissione esteri del PCI. Avendo avuto sempre uno stretto contatto con lui in quel periodo, anche perchè ero canale di comunicazione con gli europei, posso dire che proprio in questa difficile posizione di mediazione fra le posizioni del movimento e quella di Botteghe Oscure (spesso frutto non di vere divergenze ma dell’ossessione del controllo), Tom dà prova della sua grande intelligenza politica: capace di trovare compromessi e però di non recedere di un millimetro dalle proprie posizioni.
Il Pci stesso, in particolare grazie all’iniziativa di Pio La Torre, che dopo un periodo alle Botteghe Oscure è tornato ad essere segretario regionale in Sicilia, produce in quella fase, nell’isola in particolare ma non solo, una straordinaria mobilitazione, che riprende peraltro le caratteristiche di quella che 30 anni prima era stata l’esperienza dei Partigiano della pace di cui ho raccontato in questo stesso scritto: una campagna di raccolta di firme per il disarmo che otterrà una adesione straordinaria, un milione di firme solo in Sicilia.
Ma Pio si impegna in tanti modi, a cominciare dalla scoperta, che gli costerà la vita, delle connessioni dei costruttori della base con la mafia; ed è figura autorevolissima sempre presente a Comiso, dove peraltro esiste dall’inizio e poi resterà attiva sempre, un’organizzazione locale, il Cudip. Di questo organismo fondato da Giacomo Cagnes (ex sindaco comunista per anni di Comiso) e della sua importantissima attività, si parla molto in altri scritti del sito, e dunque non mi ci soffermo, se non per sottolineare che anche il Cudip diventa in quegli anni “istituzione europea”.
E’ presso il Cudip, e grazie al Cudip, infatti, che, per conto di non so quale organizzazione di volontariato, si insediano a Comiso alcuni pacifisti stranieri: a cominciare da Martin Koelher, che in seguitò continuerà la sua opera pacifista come funzionario del Parlamento europeo; e infine, appena pensionato, si trasferisce in Italia, in una casa sul lago di Bracciano, dove ha ripreso a “lottare insieme a noi”. Come Martin anche un altro tedesco, Jocheim Lorenzen, putroppo deceduto quando era ancora molto giovane: ambedue, quando eravamo ancora nel fuoco della battaglia contro i Cruise, furono senza alcun preavviso brutalmente espulsi dall’Italia.
Non parlo neppure dell’importanza avuta nella lotta contro i Cruise dall’Imac, il campo estivo che, così come quello delle donne, la Ragnatela, consentì la presenza costante a Comiso di centinaia di pacifisti e pacifiste. Li cito solo per dire quanto anche questi insediamenti siano stati “europei”, frequentati anche per prolungati periodi da giovani venuti da tutto il mondo.
Troppo europei, forse? O troppo qualcos’altro? Mentre il movimento continua a proliferare con iniziative grandi e piccole e le ipotesi strategiche si intrecciano e si complicano pur lasciando sul territorio, nei fatti, nella pratica, una grande unità sostanziale, ecco che il 2 dicembre del 1982 arriva da Mosca la denuncia. Siamo proprio alla vigilia della Convenzione di Berlino, che con tutta evidenza, svolgendosi proprio sul confine fra i due blocchi, tanto tranquillamente non può esser vissuta. La lettera di denuncia è scritta personalmente da Yuri Zhukov, presidente del comitato sovietico per la pace e attacca tutti i comitati occidentali perché non rispettano la sovranità di Mosca sull’est.
E’ lunghissima, e coi responsabili della gestione del movimento se la prende personalmente: con Ken Coates e me, che così diventiamo agenti della Cia, per gli uni, agenti del KGB, per gli altri. “Non possiamo neanche accettare – è scritto – il fatto che pressochè tutte le decisioni fondamentali sui preparativi e sulle procedure della Convenzione siano prese (e qui i nostri due nomi come coordinatori END, più due tedeschi, Joe Lleininen e Jurgen Granafalls), mentre agli altri è assegnato un ruolo di partners silenziosi.”
Berlino e oltre
E finalmente, il 9 di maggio a Berlino si apre la II Convenzione END, 3.000 delegati, 190 giornalisti presenti: l’unico italiano è l’inviato di Pace e Guerra Paolo Gentiloni. Alla presidenza un personaggio insolito, un piccione viaggiatore arrivato la sera prima da Berlino est: “Forse non potremo essere con voi ma vi inviamo questo messaggio per dirvi che il dialogo e la pace finiranno col vincere “. Si tratta del risultato di un dialogo che pur in condizioni difficili è pur sempre rimasto attivo, con i piccoli gruppi di pacifisti dell’altra Germania.
La partecipazione alla Convenzione non solo è molto ampia (dall’Italia 109 delegati, per esempio) ma è anche assai qualificata: personaggi di fama, deputati, persino ministri, dalla Spagna addirittura quello degli esteri. Molti work shops, in cui si riuniscono coloro che già lavorano insieme e possono dunque progettare iniziative comuni nel loro settore: i sindacalisti, gli studenti, i deputati, i medici, ecc.
Dopo Berlino, di Convenzioni END ce ne fu una ogni anno in un paese diverso: a Perugia, subito dopo, e poi ad Amsterdam, a Evry, a Coventry, in Svezia, e così via fino a quella del 1991, che si tenne a Mosca pochi giorni prima dell’oscuro tentativo di golpe cui seguì l’emarginazione di Gorbaciov e l’ascesa di Eltsin.
In Italia, intanto, cresce l’esigenza di darsi finalmente una struttura unitaria anche dal punto di vista delle forme organizzative, ma il coordinamento dei comitati per la pace arranca tra mille difficoltà, e non riesce a rappresentare il punti di riferimento forte di cui ci sarebbe bisogno.
Sono io stessa che provo di nuovo nel 1987, scrivendo un appello diretto ai pacifisti, non a chi dirige i singoli comitati. Decido di farlo attraverso Linus, la rivista che allora era certamente la più letta dalle nuove generazioni. Fu un’iniziativa che irritò molto il PCI perché io nel partito ero rientrata da poco con tutto il Pdup (su sollecitazione dello stesso Berlinguer, che morì qualche mese dopo, nel giugno dell’84) e non ero più abituata alla ferrea disciplina che non mi autorizzava a prendere una simile iniziativa senza informare il partito. E comunque, il PCI dell’ipotesi di una vera e propria più strutturata Associazione della pace non era affatto contento, perché inevitabilmente avrebbe rafforzato l’autonomia del movimento. E tuttavia l’appello fu appoggiato da parecchi, oltrechè dalla stessa rivista, e infatti la sua direttrice, Fulvia Serra, scrisse in merito anche un suo articolo.
Nel partito, nel frattempo, decisivo fu naturalmente Tom, che convinse la sezione esteri dove ancora lavorava a non ostacolare l’iniziativa. L’adesione dal movimento fu alta e appassionata e nel febbraio del 1988, a Bari, si tenne il primo congresso dell’Associazione per la pace italiana, con l’innovazione organizzativa del 50 per cento fra uomini e donne in tutte le strutture, e dunque con due portavoce nazionali: Flavio Lotti e Chiara Ingrao.
Un’autocritica collettiva
Smetto qui di raccontare perché da allora non ho più avuto responsabilità dirette nel movimento. Ma mi faccio un’autocritica, e vorrei che ce la facessimo tutti come pacifisti: esserlo è difficile e faticoso, ma quel che certo è che il pacifismo è più prezioso prima che le guerre scoppino, non quando sono già scoppiate e porre loro fine è impresa sempre difficilissima e quasi sempre accompagnata da tragedie. Il movimento non può però esser intermittente. E noi in un momento delicatissimo della storia siamo stati assenti, lasciando che sotto i nostri occhi si preparassero le condizioni perché il pericolo di guerra tornasse, e nelle forme più drammatiche.
In Unione sovietica nel 1985 era salito al potere Gorbaciov, che aveva portato cambiamenti profondissimi sia all’interno che nei rapporti con il resto del mondo, e in particolare proprio sul tema del disarmo. Nel 1987 Gorbaciov aveva firmato con il presidente USA Ronald Reagan il Trattato INF, che poneva fine alla vicenda degli euromissili, con il loro definitivo smantellamento. E fu Gorbaciov a decidere le aperture dei paesi del Patto di Varsavia che portarono alla caduta del Muro di Berlino. Tutto ciò non era fondato solo sulla fiducia nella democrazia, ma anche su un tacito accordo con Reagan, secondo il quale al ritiro delle truppe sovietiche dai confini dei paesi del Patto di Varsavia avrebbe dovuto corrispondere un ritiro delle truppe NATO dai confini con l’est.
Non fu così. L’Occidente tradì la fiducia di Gorbaciov: non solo non ritirò le sue armi, ma portò anzi il numero dei paesi membri della Nato da 12 che erano a 30. Tutti, con le loro nove basi, attorno alla Russia. Il contrario di quanto avremmo dovuto imporre: la creazione di una rete europea che includesse la nuova Russia e moltiplicasse con questo paese rapporti economici, culturali, sociali. Questi legami non li stabilirono i governi, ma nemmeno noi aiutammo a stabilirli, abbandonando in preda allo smarrimento una nuova generazione russa uscita traumatizzata dal crollo del loro paese. La strada per il successo della politica revanchista di Putin fu così clamorosamente aperta.