Dal 2022

L’espressione “guerra mondiale a pezzi” è stata utilizzata da Papa Francesco per descrivere la frammentazione e la complessità dei conflitti armati nel mondo contemporaneo.

Secondo il Papa, non si tratta più di una guerra mondiale su vasta scala come le due grandi guerre che avevano insanguinato il Novecento, ma di una serie di conflitti locali e regionali, che, messi insieme, possono essere considerati come frammenti di una guerra globale complessiva.

Questi conflitti, che coinvolgono diverse regioni del mondo, hanno spesso conseguenze devastanti per le popolazioni civili, causando migrazioni forzate, violazioni dei diritti umani e destabilizzazioni politiche. Questa guerra palesa anche l’inizio della fine del controllo unipolare del pianeta da parte degli Usa e dell’occidente. Un dominio che si era esercitato con le due guerre del Golfo ed era stato alimentato dalle varie teorie sulle guerre preventive, permanenti e al terrore. 

La guerra mondiale a pezzi fotografa una situazione d’insicurezza e caos prodotta dalle scelte di guerra dei decenni precedenti e per non aver colto l’occasione, storica per l’umanità, della caduta del muro di Berlino, per produrre un disarmo reale, un superamento dei patti militari e un ritorno al diritto internazionale. 

Vengono al pettine i nodi delle scelte sbagliate: aver marginalizzato l’ONU e considerato l’occidente legittimato all’uso della forza unilaterale a difesa dei propri interessi; aver destabilizzato interi Paesi alleandosi con movimenti fondamentalisti (Talebani,  Al Qaeda, Daesh eccetera) che poi si sono ribellati a chi aveva pensato di usarli per i propri fini; aver tradito le aspettative di giustizia sociale e di libertà delle “primavere arabe” preferendogli autocrati e dittatori perché garanti degli interessi economici basati sullo scambio diseguale, le politiche neoliberiste e sulla rapina delle materie prime; aver esteso la Nato fino alle porte di Mosca, approfittando della disgregazione  dell’impero sovietico; aver rilanciato dal 2001 una corsa al riarmo senza precedenti, arrivando anche alla denuncia degli accordi INF sul disarmo nucleare che avevano posto fine alla guerra  fredda. Aver ignorato la sofferenza del popolo palestinese prodotta dalla spietatezza dell’occupazione israeliana, abbandonando ogni ricerca di una pace giusta fondata sul riconoscimento dei diritti di entrambi i popoli, continuando a fornire ad Israele armi e sostegno politico incondizionato, e alimentando così la crisi della democrazia palestinese, la sfiducia in ogni speranza di pace, e dunque il sostegno ad Hamas

Eppure, nel 2021, la pandemia da Covid-19, aveva palesato alle opinioni pubbliche mondiali, la fragilità delle società umane contemporanee. Tra lockdown, monopoli dei vaccini, bollettini quotidiani di morti e nuovi infetti, anche le classi dirigenti avevano iniziato a discutere di come far fronte alle vere minacce all’umanità a cominciare dal riscoprire la grande attualità strategica delle politiche sanitarie e di cura.

Contestualmente In Afghanistan le truppe occidentali abbandonavano al loro destino la popolazione civile facendo a loro modo giustizia della propaganda che per 20 anni aveva descritto quel conflitto come una guerra per la civiltà e i diritti delle persone. Quella ritirata, immortalata nelle scene di fuga nell’aeroporto di Kabul, sembrava aprire un inizio di discussione sulla scelta occidentale d’investire nell’insicurezza delle armi e nelle missioni militari internazionali. Di fronte a tutti i teleschermi la Nato naufragava e si palesava per quello che era: l’alleanza dei Paesi ricchi che di volta in volta abbellivano il loro agire armato da gendarme del mondo con giustificazioni ideologiche che strumentalizzavano le sofferenze dei popoli. Un danno d’immagine così grave che lo stesso presidente francese Macron osò parlare dell’Alleanza Atlantica come quella di un corpo “in morte cerebrale”. 

La Guerra mondiale a pezzi, sembrava così perdere consenso, imponendo finalmente una discussione sul reale progresso umano e sulla necessità non più rinviabile, di costruire la pace.

Il 24 febbraio 2022 questo timido segnale è stato spazzato via dall’invasione dell’Ucraina da parte del regime di Putin, con i massacri dei civili, le centinaia di migliaia di morti da entrambe le parti, e la repressione feroce di ogni voce per la pace all’interno della Russia. Inoltre, la qualità della scesa in campo di una potenza nucleare con centinaia di migliaia di soldati è stata uno shock non preventivabile, riproponendo una confrontation del terrore degna dei tempi della guerra fredda. 

Il dibattito pubblico in Italia è stato avvelenato da una campagna di criminalizzazione di chiunque si opponesse alla “guerra giusta” e al sostegno incondizionato al governo dell’Ucraina. Dietro l’invio di armi c’è stata una opera di violenza culturale a chiunque ricordasse i principi della carta costituzionale e financo quella dell’Onu. Insomma politica e diplomazia sono state messe da parte e si è prospettata la soluzione militare come la sola in grado di dare giustizia al popolo ucraino. Gli attacchi, il linciaggio vero e proprio, ai pacifisti, sono i frutti avvelenati di una isteria bellicista che rischia di travolgere le nostre stesse democrazie. La diffusione dell’odio verso ogni aspetto dell’identità e della cultura russa, la cancellazione o il dileggio verso la coraggiosa esperienza del pacifismo in Russia, sono colpi mortali anche all’identità collettiva del nostro Paese.

 In Italia, il sostegno a pacifiste e pacifisti russi è stato espresso dando loro la parola nelle manifestazioni contro la guerra, lanciando la campagna internazionale #ObjectWarCampaign per la protezione degli obiettori di coscienza russi, bielorussi e ucraini, e nell’impegno di alcune persone e gruppi a livello di informazione e sensibilizzazione; non si è riusciti però a farne una campagna di massa, e il lavoro di facilitazione del dialogo fra i popoli sui fronti opposti della guerra si è rivelato molto più difficile che in altre esperienze passate, per la difficoltà di trovare interlocutori disponibili.

Tuttavia, nonostante queste e altre debolezze, la guerra in Ucraina ha visto il movimento per la pace reagire in modo molto più forte e consapevole rispetto ad altri Paesi europei. Il principio del rifiuto della guerra, della solidarietà con le vittime e della necessità di una soluzione politica per assicurare la pace in Europa sono stati al centro di importanti mobilitazioni. Negli altri Paesi europei, specie all’Est, anche forze della società civile di ispirazione pacifista hanno accettato la logica militare con l’obiettivo di una sconfitta dell’invasione russa e con l’adesione al sostegno militare occidentale all’Ucraina, con l’invio di armi sempre più offensive, supporto logistico e di intelligence. Proprio la mancanza di un luogo comune di un’azione globale europea e mondiale – come era stato invece negli anni Ottanta sul dispiegamento degli euromissili o nel 2003 nelle mobilitazioni contro l’invasione di Usa e alleati dell’Iraq – rappresenta un nodo politico che se non risolto rischia di rendere inefficace le iniziative pacifiste.

Al contrario abbiamo visto il moribondo elettroencefalogramma piatto della Nato riprendere non solo vitalità, ma indurre Paesi storicamente neutrali come Svezia e Finlandia, ad essere reclutati nell’Alleanza stessa. 

Assistiamo a un fiorire di tesi politiche tutte astratte e non basate sui dati razionali che spingono i nostri Parlamenti a pianificare una corsa al riarmo e alle spese militari contrabbandandole come necessarie per la nostra sicurezza. Come se i 20 anni alle nostre spalle fossero stati due decenni di disarmo e non invece una silenziosa e devastante corsa a riempire gli arsenali come dimostrano i dati del Sipri.

Nel frattempo la ritorsione israeliana per le efferatezze compiute da Hamas e altre organizzazioni armate palestinesi al 7 ottobre ha raggiunto vette di violenza che non hanno precedenti, tanto da indurre la Corte Internazionale di Giustizia ad aprire un procedimento per violazione della Convenzione sul Genocidio. Gaza è ridotta in polvere e la sua popolazione costretta alla fame e alla sete, mentre il sogno della grande Israele “dal fiume al mare” si sta trasformando in incubo per i civili palestinesi della Cisgiordania occupata e spinge il governo messianico, fondamentalista e di estrema destra di Netanyahu ad estendere il conflitto al Libano, alla Siria, e all’Iran.   Purtroppo l’Unione Europea è apparsa divisa e per molti versi complice del massacro. l’Italia non ha mai avuto il coraggio di votare all’Onu per il cessate il fuoco o per il riconoscimento dello Stato di Palestina. Di contro sono innumerevoli le manifestazioni contro il massacro di Gaza che si sono tenute in quasi tutte le città italiane. Importantissime le mobilitazioni degli studenti che chiedono alle università di rompere le relazioni con quelle israeliane fino a quando il massacro non cesserà, mettendo allo scoperto il ruolo dell’industria bellica nella ricerca dual use di questi partenariati. Una grande influenza ha l’occupazione e la mobilitazione a fianco del popolo palestinese degli studenti nelle università Usa, anche per l’emergere di una nuova generazione di ebrei non più disponibili ad un sostegno acritico ad Israele e impegnati a costruire una propria identità autonoma, in alcuni casi anche rifiutando il sionismo. 

Il movimento per la pace si organizza con la costruzione di carovane e con l’invio di osservatori a tutela della popolazione civile; ma non è ancora riuscito a produrre la partecipazione di massa che l’urgenza tragica di questa fase storica richiederebbe, soffre di divisioni interne, e fatica a trovare linguaggi e forme organizzative che producano un coinvolgimento di tanti e tante. Ce la faremo? 

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