Il testo che segue è tratto dal libro ““2001-2021 Genova per chi non c’era. L’eredità del G8: il seme sotto la neve” a cura di Angelo Miotto, 2021, ed. Altreconomia www.altreconomia.it
Ho tagliato alcuni paragrafi più autobiografici e ho inserito, per facilitarne la lettura anche in considerazione della lunghezza del testo, i sottotitoli che non sono presenti nel libro. Ringrazio Angelo Miotto e Altreconomia per aver autorizzato la pubblicazione.
Poterlo pubblicare sul sito dell’Arci per me è motivo di grande soddisfazione, perché tutto quello di cui racconto lo abbiamo vissuto insieme, con Tom e con tutti voi.
Un abbraccio e buona lettura,
Vittorio
Una premessa. Non c’era prima e non c’è stata dopo in Italia nessun’altra esperienza nella quale così tante associazioni, movimenti, gruppi abbiano lavorato insieme e si siano dati una struttura comune attorno a un progetto condiviso. La peculiarità di Genova 2001 è stata che associazioni che agivano in campi molto diversi uno dall’altro e che spesso lavoravano su temi che erano loro specifici sono arrivate a comprendere che, se volevano ottenere dei risultati per il loro particulare, dovevano imparare a lavorare insieme ad altri, dato che per perseguire i loro obiettivi incontravano le stesse difficoltà e si scontravano, alla fine, con gli stessi avversari. E che quindi una singola associazione non poteva vincere nel suo “campo” se non metteva in discussione delle regole e un sistema molto più grandi e complessi di loro stessi e del singolo tema che ciascuno stava affrontando.
Dalla lotta per i farmaci al Genoa Social Forum
Mi spiego: io in quel momento ero il presidente della Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids (Lila), quindi mi occupavo – per dirla in sintesi – del diritto di tutti a curarsi, dell’accesso alle terapie, dell’assistenza sanitaria, del supporto psicologico alle persone sieropositive e alle loro famiglie e via dicendo. Proprio in questa occasione ci siamo scontrati con un problema molto attuale anche oggi e cioè con il fatto che i farmaci contro l’Aids costavano tantissimo, che erano prodotti da un numero limitato di aziende e che quindi perfino i Paesi europei e l’Italia stessa facevano fatica ad acquistarli, visto il costo spropositato. Tant’è vero che in alcune situazioni – parliamo del 1996 – dei farmaci importanti (gli inibitori delle proteasi) erano disponibili in altri Paesi europei ma non ancora in Italia, perché non c’era stato un accordo tra il ministero e le aziende produttrici, a causa dei costi troppo alti; ma tutto il Sud del mondo e in generale il mondo meno ricco non poteva avere quei farmaci.
In quegli anni è stata esemplare la vicenda del Sudafrica, di cui Nelson Mandela era presidente: in Sudafrica circa il 30 per cento della popolazione femminile dai 14 ai 40 anni era sieropositiva e aveva bisogno dei farmaci. Proprio a causa del loro costo eccessivo non si riuscì ad arrivare a un accordo con le aziende farmaceutiche: Mandela allora autorizzò le aziende sudafricane a produrlo. La conseguenza fu che 39 multinazionali farmaceutiche fecero causa al Sudafrica. Alla testa delle aziende farmaceutiche c’era la Glaxo Wellcome e dall’altra parte il governo sudafricano, accusato di aver prodotto i farmaci scavalcando il brevetto. Uno Stato sovrano veniva quindi “denunciato” davanti a un tribunale interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, da cui dipendevano gli accordi sui farmaci. Al Sudafrica fu proibito di produrre farmaci senza brevetti: la Lila è partita allora con una grande mobilitazione insieme ad altre associazioni europee e io stesso ho coordinato la campagna europea di solidarietà a Mandela e al Sudafrica per l’accesso ai farmaci. Così è stato inevitabile scontrarci con l’Organizzazione Mondiale del Commercio.
L’avversario è comune, è l’attuale modello di sviluppo
Ovviamente è difficile vincere contro l’OMC! Mentre noi ci inoltriamo su questo percorso ci rendiamo conto che ci sono, per esempio, tantissime associazioni che si occupano di agricoltura, che si occupano di costruire una “filiera corta”, cioè un rapporto stretto tra quello che si produce e quello che si consuma e che si battono quindi contro le grandi multinazionali del settore agricolo, contro gli OGM ma soprattutto contro – diciamo – le “monoculture” prodotte dalle grandi aziende multinazionali. E arriviamo a scoprire e a capire che anche nel loro caso il problema è l’Organizzazione Mondiale del Commercio, che ha stabilito una serie di regole e che concede all’Europa di finanziare le multinazionali europee ma non permette invece ai Paesi africani di proteggere, attraverso i dazi, le loro colture. Allo stesso modo le associazioni che lavorano in solidarietà coi migranti si scontrano con il fatto che, mentre le merci, in nome dell’economia, possono attraversare il mondo e circolare liberamente, gli esseri umani invece non sono universalmente liberi di muoversi.
Scopriamo quindi che abbiamo gli stessi avversari e che i centri di potere che stabiliscono determinate regole sono sempre gli stessi: nasce così la necessità di costruire una convergenza e una piattaforma comune. Individuiamo in quelle strutture sovranazionali che nessuno ha eletto – Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio – i centri di potere che determinano quelle regole globali che producono le situazioni di disuguaglianza contro le quali noi cittadini ci stavamo battendo e individuiamo nei “G8” i rappresentanti delle nazioni più potenti, che sono poi quelle che “danno la linea” a queste strutture.
In tale contesto ci sono, per esempio, le associazioni che lavorano nella cooperazione internazionale che sono in un severo conflitto con il Fondo monetario internazionale, che – attraverso i piani di aggiustamento strutturale – condiziona i prestiti ai Paesi alla realizzazione di pesanti tagli alla sanità pubblica e all’istruzione. Altre associazioni si battono contro gli interventi fatti dalla Banca Mondiale in ambito sanitario. Sì, perché Banca Mondiale in quel momento sta diventando uno dei principali soggetti che intervengono economicamente in ambito sanitario, ma con l’obiettivo di sviluppare la sanità privata, quindi con l’accesso a pagamento alle prestazioni e di realizzare il pareggio di bilancio attraverso draconiani tagli alla sanità e all’istruzione pubbliche. Ci sono infine quelli che si battono contro il commercio e la produzione delle armi, e anche loro arrivano a scontrarsi con gli stessi poteri.
L’adesione al GSF è stato quindi il risultato di un percorso nel quale ognuno ha compreso la necessità di mettere in discussione il modello di sviluppo perché le regole contro le quali noi ci battevamo e ci battiamo non sono regole settoriali ad hoc ma fanno parte di una filosofia, di una ideologia di gestione del mondo che mette al primo posto i profitti, l’economia e soprattutto la finanza. Da questa consapevolezza nasce l’esigenza di lavorare insieme. E di non farlo in modo episodico ma di arrivare a darsi un’organizzazione.
L’organizzazione e le regole del GSF
Il Genoa Social Forum prende forma proprio attraverso questa riflessione.
Il suo “Consiglio dei portavoce” nasce per la necessità di darsi una struttura. La cosa interessante è che il Genoa Social Forum aveva un consiglio di 18 persone ma in cui ogni persona era portavoce di un’area di intervento, non di un blocco politico-ideologico. C’era quindi chi era portavoce delle associazioni che si occupano dell’ambito sanitario, di welfare e di assistenza. Chi era portavoce delle organizzazioni che lavorano soprattutto in campo ambientale. Perché tale convergenza era figlia dei tempi: erano i campi di intervento che diventavano i luoghi di una sperimentazione di lavoro in comune e che quindi poi definivano chi era il portavoce. E quindi il Genoa Social Forum diventa sostanzialmente in quel momento la Rete delle reti.
Arriviamo a capire che riusciamo a pesare solo se ci diamo unità e rappresentanza e se riusciamo a evitare che il “circo mediatico” ci strumentalizzi, a proprio uso e consumo. Anche da qui allora viene la necessità di avere un portavoce, cioè qualcuno che sappia rappresentare pubblicamente la sintesi del dibattito che c’è stato nei movimenti e quindi in tutte le associazioni.
Il ruolo di portavoce era duplice. All’esterno era il ruolo di “voce” del movimento e che portava la posizione unitaria del movimento. Mentre all’interno il portavoce era il garante della possibile coabitazione e convivenza delle diverse anime del movimento.
Il Genoa Social Forum si dà poi una regola per cui tutte le decisioni vengono prese solo all’unanimità. Si fa solo quello che non ha il veto di nessuno. Cioè, quando dobbiamo prendere una decisione ogni gruppo propone che cosa vuole fare e poi si chiede a tutti: per la nostra carta comune e per le nostre scelte comuni ritenete legittime le cose che sono state proposte – anche quelle che voi non vi sentite o non volete fare -? Se sì, il Genoa Social le inserisce tra le proprie iniziative. Poi ci saranno quelli che non partecipano ma riconoscono la legittimità di quelle iniziative. Se invece alla proposta di qualcuno non viene riconosciuta legittimità da tutti gli altri, quell’azione non si fa.
Questo è il meccanismo che ha reso possibile anche organizzare cose molto diverse l’una dall’altra: c’era chi portava dentro il GSF la veglia di preghiera del venerdì, chi i presidi in piazza, chi la manifestazione. Ma quello che aveva organizzato la veglia di preghiera era d’accordo che tra le iniziative proposte dal Genoa Social Forum ci fossero anche il presidio in piazza o il corteo. E viceversa. Era un modo interessante e originale di stare insieme, dove andavi sempre a cercare di mettere al centro le cose che potevano essere condivise e di ridurre al minimo invece gli spazi di frizione.
Quando ci si riunì per decidere il portavoce (del Consiglio del GSF), da parte di tutte le realtà c’è stata la convergenza sul mio nome, io nella mia storia avevo un percorso dove da sempre avevo intrecciato un attivismo e una militanza nei movimenti politici della sinistra e dall’altra parte un’altrettanta lunga militanza nell’associazionismo cattolico e in particolare negli scout dell’Agesci. Diciamo che avevo consuetudine a incrociare i linguaggi, le tradizioni e le esperienze di quelle che erano probabilmente le due culture più rappresentative tra le associazioni, quella che veniva dal mondo cristiano e cattolico e quella che veniva dalla sinistra.
L’unità fa la forza e fa anche paura
Torniamo a parlare di Genova: non è un caso – e questo è un messaggio importante per i ragazzi – che, a fianco della repressione di strada molto pesante che c’è stata, ci sia stata anche una repressione “mediatica”, che aveva come obiettivo fondamentale spaccare il Genoa Social Forum. Il nostro stare insieme, infatti, ci faceva forti e faceva paura; faceva paura a chi doveva difendere dei privilegi, perché riuscivamo a superare i classici steccati di mondi autoreferenziali e a parlare per così dire “a mare aperto”, a tantissima gente. E quindi l’obiettivo è diventato “spaccare” il Genoa Social Forum e fare in modo che ognuno tornasse a casa propria, che si rompessero i canali di comunicazione che avevamo attivato. Non solo il tentativo non è riuscito ma ad esempio settori interi delle Acli, come quelli di Milano e Bergamo, hanno deciso (n.d.a. nonostante la posizione della presidenza nazionale della loro associazione) di partecipare al Genoa Social Forum e di venire a Genova, dando un importante contributo e un significato molto importante. Così come altri movimenti, da Lilliput ai Focolarini.
Questa mescolanza è interessante perché c’è stata una complessiva messa in discussione delle collocazioni precedenti, nel tentativo di costruire nuove identità più aperte, meno legate alle ideologie o alle appartenenze del secolo precedente, reminiscenza degli anni Sessanta e Settanta. Non solo: questa capacità di stare insieme ha aperto le porte ai tantissimi che non avevano appartenenze, perché non gli chiedevamo di prendere una tessera o di iscriversi a qualcosa ma di partecipare a un’avventura collettiva di cui le porte erano aperte, se non spalancate.
Di questo si è ragionato poco e, se ci pensiamo, non c’è più stata nei 20 anni seguenti un’altra esperienza di questo tipo. E attenzione, perché il Genoa Social Forum non dura tre mesi, dura dall’autunno del 2000 fino a dopo il Social Forum di Firenze e alla manifestazione contro la guerra del 15 febbraio del 2003. Questo percorso, quindi, va avanti praticamente fino a quando – nonostante le manifestazioni di massa – scoppia la guerra dell’Iraq. È un’esperienza che riesce a orientare milioni di persone, dai missionari, che pregano durante il G8, ai centri sociali: non a caso uno dei giornali che ci diede più spazio prima di Genova fu Famiglia Cristiana, che scrisse molte pagine sulle tematiche del movimento, per esempio, sulla raccolta di firme per la Tobin Tax, la tassa sulle transazioni finanziarie.
….e scatta la repressione.
Con lo scoppio della guerra, che noi viviamo come la sconfitta di quella grande mobilitazione pacifista, il movimento poi perde la sua unità. Nel frattempo, si era attivata la repressione mediatico-giudiziaria, perché è evidente che il potere tende sempre a trasferire il confronto dai contenuti a un rapporto puramente di forza che si sostanzia nella repressione nelle piazze e nelle aule giudiziarie…..
Se ti sei messo contro al 95 per cento del sistema politico, il sistema politico si vendica. Dopo il 2001 alla Lila saltano diversi progetti con enti locali anche a noi vicini; tra questi – per fare un esempio – un importante convegno sull’HIV a Firenze con ospiti internazionali, organizzato con la Regione Toscana. Poco prima del convegno la Regione contatta la direttrice generale della Lila e fa presente che se ci fossi stato io il convegno sarebbe saltato. Preciso che ero il presidente della Lila, che la Regione Toscana non aveva un governo di destra ed era venuta a Genova con tanto di gonfaloni. Certo, ero forse il più esposto ma questo può far capire come venissero messe in crisi le associazioni. E a quel punto il ragionamento che molte associazioni fanno è questo: per poter continuare a svolgere la nostra attività, che pur andava nello stesso senso indicato dal Genoa Social Forum, devo rimettermi gli “abiti” che avevo prima. Perché prima ognuno aveva sì una sua camicia ma a Genova aveva indossato sopra di questa la giacca del Genoa Social Forum e del lavoro fatto in comune. Ma per salvare l’attività che fai, magari un’attività che salva vite, rende giustizia a qualcuno… sei costretto a delimitare il terreno e lo spazio della tua azione.
Questa è stata sicuramente una sconfitta, ma il movimento non è scomparso, è rimasto per così dire “sottotraccia”. Il movimento rimane carsico per dieci anni, ma poi riemerge, ad esempio in occasione del referendum per l’acqua pubblica e contro il nucleare nel 2011: perché, se vai a vedere le realtà che aderiscono al Comitato per i referendum, si ritrovano di fatto gran parte delle realtà che avevano aderito al Genoa Social Forum. Un’eredità molto chiara.
Un movimento globale che ha saputo seminare.
Un’altra novità assoluta del movimento altermondialista era che non si limitava all’ambito nazionale ma era di portata globale. Perché Genova vuol dire anche Seattle, Porto Alegre e Forum Sociale Mondiale. Un’ulteriore importante caratteristica è che questo è stato un movimento molto più propositivo che contestatario. Questo spesso non viene ricordato perché la memoria collettiva di Genova è incentrata sui fatti di venerdì 20 e sabato 21 luglio, ma questo è un movimento che a Porto Alegre raccoglieva decine di migliaia di persone che arrivavano da tutto il mondo e nella cui università si tenevano incontri e lezioni di altissimo profilo. Il Forum di Genova inizia lunedì 16 con una serie di incontri che affrontano il tema dell’energia, dell’agricoltura, il tema dell’acqua, il tema dell’ambiente, quello del clima, le armi, i farmaci: è un movimento, in sintesi, che avanza proposte di trasformazione per un modello di sviluppo completamente alternativo……
Penso infatti che le tematiche di allora si ritrovino in tutti quei movimenti che si sono sviluppati successivamente: le abbiamo incontrate sicuramente nel movimento dell’acqua, perché – banalmente – il termine “beni comuni” non esisteva prima del Duemila, è stato un nuovo vocabolo forgiato dal movimento stesso. Nello stesso periodo prende piede e trova il suo spazio anche la parola altermondialista. Se parliamo di Occupy Wall Street ritroviamo la critica alla finanza che si mangia e sostituisce l’economia reale. Se andiamo a riascoltare il dibattito del pomeriggio del 16 luglio e l’intervento di Susan George – allora presidente di Attac Francia – è centrato esattamente su questo tema: attenzione, dice, perché, se la finanza prevarrà sull’economia, andremo incontro in Europa a una delle peggiori crisi economiche e sociali di tutto il periodo.
Le tematiche ambientaliste si ritrovano nell’intervento di Walden Bello, presidente di Focus on the Global South, un’associazione filippina, sempre nella sessione di apertura: se questo modello di sviluppo va avanti assisteremo a cambiamenti climatici o allo scioglimento dei ghiacci, all’aumento del livello del mare con intere terre e popolazioni che rischiano di scomparire. Oppure parliamo di Black Lives Matter: non dimentichiamoci che proprio a Genova la prima manifestazione che viene fatta è il corteo in solidarietà dei migranti e contro ogni razzismo. Si coglie il fatto che i migranti saranno la cartina tornasole di questa logica neoliberista, saranno le vittime prescelte del modello neoliberista.
Io credo quindi che i semi dei movimenti che si sono sviluppati in questi vent’anni, li troviamo non solo a Genova in quanto tale, ma in tutto quel movimento altermondialista che si sviluppa a cavallo dei due millenni, dal 1999 al 2003. E tra l’altro lo puoi leggere anche nelle “biografie” dei protagonisti: pensiamo alla lotta sulla casa a Barcellona che poi porterà alla conquista da parte di Podemos del municipio della capitale catalana e poi di Madrid. Pablo Iglesias come altre persone sono passate da Genova. E anche l’esperienza greca di SYRIZA nasce da Genova come Collettivo Genova 2001, di cui ho potuto seguire l’evoluzione nei successivi congressi.
Questo non vuol dire che i movimenti che si sono susseguiti non abbiano portato nulla di nuovo. Assolutamente. Sostengo semplicemente che ci sono dei fili rossi che ti riportano all’esperienza di quegli anni, in cui il momento di elaborazione collettiva mondiale e globale è stato di altissimo livello. Nel consiglio internazionale del Forum Sociale Mondiale – di cui ho fatto e faccio ancora parte – erano rappresentati praticamente tutti i movimenti più importanti del pianeta.
Sia chiaro quindi che i movimenti che sono nati dopo hanno una loro autonomia e un loro percorso, ed è giusto che sia così, come avviene tra le varie generazioni. L’attenzione al pianeta di Fridays for Future viene dai movimenti precedenti ma ha caratteristiche sue proprie. Dobbiamo evitare in tutti i modi che una generazione pensi di poter dare la linea a un’altra generazione.
Forse, l’unico suggerimento che mi sentirei di dare – ma badate, non c’è nessun grande vecchio che può dare dei consigli ai movimenti più recenti – è che, a modo loro, trovino dei canali di comunicazione reciproci. I Black Lives Matter con Fridays for Future, piuttosto che i movimenti sulla casa o contro la finanza. Credo che mai come oggi ci sia un gran bisogno di costruire momenti di convergenza. La pandemia è una cartina tornasole: è il prodotto di un modello di sviluppo, che ha travolto tutto e non ha lasciato fuori nessuno. Ma ti fa vedere, dall’altra parte, che o riesci a mettere in discussione il modello di sviluppo in quanto tale o le singole battaglie difficilmente ti porteranno a vincere.
Per chiudere. Susan George ha detto un’altra cosa importante: questo è il primo movimento che non chiede nulla per sé.
È una grande verità. Eravamo il primo movimento globale della storia, anche se i media e i giornali ci chiamavano “no global”… Però eravamo per un’altra globalizzazione, siamo stati un movimento altermondialista che si batteva per il futuro e in nome delle future generazioni. Un movimento che metteva in discussione i principi sui quali era fondata la convivenza umana, le gerarchie di potere e di valori, la piramide sociale, anche se non un movimento “rivendicativo”. Da questo punto di vista – culturalmente – era sicuramente un movimento con un portato rivoluzionario, se per rivoluzione intendiamo un cambiamento radicale del sistema.